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14/4/2018

COLONIE #2: PATTAYA BITCH, CRONACHE DALLA CITTÀ DELLE PUTTANE

 

Quella che state per leggere è la seconda puntata del mio diario di viaggio asiatico a scoppio ritardato. Fra agosto e settembre 2017 ho trascorso un mese e mezzo in Thailandia, Cambogia, Vietnam e Laos. Ho cominciato a scrivere solo a dicembre 2017, per lasciar sedimentare i ricordi. La prima puntata si è svolta a Siem Reap (Cambogia).

Colonie è un insieme di storie e riflessioni, o meglio un insieme di riflessioni che nascono da storie. Una specie di reportage narrativo con incursioni bastarde.

Per tagliare sulle lungaggini: il senso di tutto questo progetto è, credo, che le colonie esistono ancora, al di là delle formalità di facciata. Vivono nei processi storici, nelle catene economiche e nei rapporti di forza imposti. Vivono, soprattutto, nella testa degli occidentali.

Il cortocircuito paradossale è che «Occidente», a livello pratico, non significa più nulla già da alcuni anni.

Buona lettura.

Otto di mattina, Mo Chit, stazione internazionale degli autobus di Bangkok. La metropoli cresce intorno, tutta grovigli di superstrade, palazzoni, spianate gialle di terra e fasci di fili elettrici che corrono paralleli alle strade, a tre metri d’altezza.

   La colazione promette bene. Brodo caldo, lamelle di maiale fritto e palline bianche che sembrano occhi di capra.

   I tavolacci sono già piuttosto affollati. Ecco a voi il ladyboy che sparecchia, tirandosi appresso il secchio della spazzatura. Guarda la realtà con un distacco regale e malvagio.

   Nella realtà ci sono pure io, davanti alla mia zuppetta. Mangio zuppette da un mese e mezzo. Non sono dimagrito solo perché sono già magro e poi mi sono rimpinzato di Coca Cola. La cucina asiatica è stata piuttosto traditrice.

   Aspetto la coincidenza del bus per Pattaya, cittadina sulla costa nel distretto di Bang Lamung, a un paio d’ore da BKK.

   Il viaggio che ho sulle spalle non è stato il massimo. Il night bus non era così night: una bella fregatura. Poi io manco sono capace di dormire in autobus, anche quando ci sono i letti per sdraiarsi; in generale dormo poco e male, pure a casa, problema mio.

   Vientiane e il Laos sonnolento me li sono lasciati alle spalle, e mi va bene, perché nella grande B, alla quale ritorno dopo un mese ramingo, tutti sono amici e nemici, tutti vogliono qualcosa da me e io notoriamente non do niente – di niente – e questo crea tensione. E dunque mi piace. Ma allora perché ci vado a ’sta Pattaya?

   Credo che abbia a che fare con la mia pigrizia. Ci sono cose che considero importanti e altre no. Famiglia/affetti: molto importante. Amici: importante. Scrivere: molto importante. Viaggi: meno importante.

   Che poi non è vero. Viaggiare è una delle cose che mi piace di più. Mi consente di compiere azioni e sviluppare pensieri che probabilmente non farò più, o comunque farò fra molto tempo, cioè al prossimo viaggio. Mi permette di ricaricare le batterie quando ho scritto troppo, o quando dovrò scrivere troppo (e questo è il caso: al ritorno dall’Asia scriverò sessanta capitoli in tre mesi di un libro che dovrà essere, nei miei progetti, il seguito del noir che esce il 15 maggio, solo che adesso, davanti alla ciotola della zuppa, non lo so ancora che lavorerò così tanto, al mio rientro…). Ma il punto è che alle cose «meno importanti» non dedico la stessa pianificazione maniacale che riservo, ad esempio, ai libri.

   Così, quando il Grande G, l’amico che viaggia con me, mi dice: «Oh, ma dopo 4000 chilometri in autobus ce li facciamo un paio di giorni al mare?», io rispondo di sì, ma non ho idea di che meta proporre, ovviamente non mi sono preparato, e, non so perché, il nome di Pattaya emerge dalle pieghe del mio cervello. Devo averlo sentito in giro. Internet? Tv?

   Quindi: «Boh, ci sarebbe Pattaya, mi pare che lì c’è il mare. Dovrebbe essere una città famosa».

   «Posto tranquillo?»

   «Boh, ma c’è il mare.»

   Caso e Trascuratezza mi/ci spingono su quell’autobus carico di occidentali, che si allontana dalla banchina in direzione Pattaya.

   Tranquilla, sì. Ma forse qui si esagera. È mattina e le vie sono attraversate da maschi caucasici fra i sessanta e i settanta. Affittano motorini e girano in ciabatte. Le insegne pubblicitarie sponsorizzano Cialis e Viagra. Poi un pensiero: se sono finito nel buen retiro dei pedofili di merda mi incazzo come una bestia, anzi, facciamo le tende immediatamente.

   Ma la realtà è un po’ più complessa.

   Sì, ci sono i vecchi zozzoni, però niente bambine in giro. E poi guarda il resto della fauna: famigliole russe della classe media, giovani europei, addirittura gruppi di ragazze da sole. I conti non tornano e, quando questo succede, a me viene da restare.

   In sé, la città è una striscia di cemento che si accalca come muffa lungo il litorale. I palazzi degli alberghi in sulla costa, poi uno strato di case più antiquate separate da viuzze, poi, più all’interno, ancora casermoni per turisti, ma meno prestigiosi di quelli sul mare, e infine una rete di strade fiancheggiate da case a due piani che finisce per sciogliersi fatalmente nella campagna circostante.

   Ad ogni via ampia a sufficienza sorge un altare in onore di Bhumibol Adulyadej, il sovrano morto nel 2016, un tizio tutto orecchie a sventola e portamento arrogante. Le sue gigantografie sono ovunque in Thailandia. È dalla metropolitana soprelevata che conduce dal Suvarnabhumi Airport (quello dov’è morto Manuel Vázquez Montalbán) al centro di Bangkok che l’ho visto per la prima volta. Compariva su abnormi cartelloni illuminati a giorno – i più grandi mai visti da me – che aprivano finestre di luce nell’oscurità della periferia di Bangkok. Qui è una specie di santo, questo Bhumibol Adulyadej, e tutti sembrano amarlo, tanto che circa un mese fa mi sono ritrovato in un mastodontico corteo funebre che lo commemorava, pieno di thailandesi vestiti di nero intenti ad affluire al palazzo reale sotto un sole cocente. Ma, a dirla tutta, Bhumibol è stato un destro della madonna che ha avallato corruzione e porcherie a dritta e a mancina. Ad esempio inviare truppe di élite dell’esercito a Long Tieng, un posto nella jungla lontano 700 chilometri da Bangkok – addirittura in un altro paese, il Laos –, per addestrare, insieme alla CIA, i mercenari Hmong guidati da Vang Pao che dovevano combattere contro i guerriglieri del Pathet Lao, i comunisti laotiani,  in quella che è passata alla storia – ma chissà se davvero ci è passata alla Storia – come la «guerra segreta». Per inciso: i B52 americani hanno sganciato più bombe a grappolo sul Laos di quante ne abbiano sganciate sul Vietnam. Per inciso: le bombies, cioè i piccoli ordigni contenuti nelle bombe a grappolo, hanno seminato il terreno di tutto il paese, soprattutto lungo il cosiddetto Sentiero di Ho Chi Minh e nella Piana delle Giare, facendo poi fiorire, a distanza di anni, decine di migliaia di mutilati, spesso bambini; ne ho visti molti anch’io. Per inciso: dopo la vittoria dei comunisti, Vang Pao è fuggito negli USA dove è morto serenamente, circondato da una piccola e quadrata comunità di esuli che lo venerava come un semidio; è sospettato di aver accumulato una fortuna con il traffico di eroina.

Vang Pao

   Chiedo scusa se divago, ma il tempo, invece che anestetizzare i ricordi, li fa gonfiare come una spugna nell’acqua.

   Ottocento chilometri a sud-ovest, ancora a Pattaya.

   Il mare fa schifo, ma i turisti sembrano farselo andare bene. Come se non bastasse ci sono anche quegli italiani che non vorresti incontrare.

   Voilà il gruppetto di vecchi stronzi sotto gli ombrelloni. Sorseggiano cocktails e discutono. Un tizio sulla settantina, camicione di lino, capelli bianchi e barba dei tre giorni, sta gridando agli altri con accento toscano: «Perché lì l’impianto l’è fatto male! ’un è fatto a re’ola d’arte! Eccòme te lo devo dire che viene su la merda!»

   Lontano dal lungomare, nelle vie più interne, «Massaaaaaage» e occhiolini ogni trenta passi. Qualcuno cede alle sirene, altri no. In generale la città è addormentata. È ormai chiaro che vive di notte.

   In che modo, lo chiarisce la receptionist dell’albergo.

   «Se volete portare le ragazze in camera, sono 250 baht.» Poi aggiunge: «Each

   «No, sorella, guarda che a noi non ci interessa.»

   Ci squadra. Quello che conclude è che ha davanti una coppia omosessuale.

   Allora dice: «No ladyboys

   Poi accenna al muro dietro di sé. C’è appesa una specie di foto segnaletica di un tizio thailandese, con tanto di copia anastatica del passaporto falso di Singapore. Più a fianco, la fotografia dello stesso tizio truccato da donna e coi capelli lunghi. Cerca di spiegare a gesti che hanno avuto casini coi ladyboys.

   «Guarda, mi spiace per voi, ma a noi comunque non ci… Cioè, noi saremmo venuti per il mare.»

   E qui dovrei spiegarle tutto il discorso sulla mia pigrizia, sul fatto che non pianifico gli itinerari, sul fatto che a Pattaya ci sono arrivato fortuitamente e che considero l’accidentalità una compagna di viaggio non essenziale ma gradita, quando visito paesi che non conosco. Ma non è proprio il caso. La ragazza è lì che continua a indicare la foto alla parete e fa no no no col ditino.

   «Va bene. Okay, no ladyboys, sorella.»

   Ma lei conosce il posto in cui vive e sa di essere dalla parte del giusto. Pattaya è la città delle puttane. La Città Puttana.

   Qui la Meccanica della Colonia è così evidente e radicata da apparire simile a un evento della natura: ineluttabile, come le piogge o i terremoti. E si esprime esclusivamente attraverso il sesso.

   Ovunque: bum bum (scopare). Ovunque: yum yum (fellazione). Ovunque: massaaaaage.

   Una volta tornato in Italia, ho scoperto che sul web esistono vere e proprie guide al turismo sessuale di Pattaya. Scritte con sapienza e arguzia, in tutte le lingue, con descrizioni vivaci. Ci sono prezzi, relazioni dettagliate sulle prestazioni, nomi di locali. Occhio, scopatori: andate al locale Tale, ci sono delle vecchie ed esperte bocchinare che «will suck your balls dry», cioè che «vi asciugheranno le palle a suon di pompe» [traduzione mia]. Vengono anche narrate esperienze personali. Ho letto di un italiano che è stato fregato sulla tariffa, ma ci è rimasto male soprattutto perché la ragazza, prima di sparargli fuori il caro-trombata, aveva pianto quando le aveva detto che fra poco sarebbe partito, l’aveva illuso, aveva detto di essersi innamorata; sì, scrive il puttaniere, lui ci aveva creduto. Nei commenti del forum si leggono messe alla berlina, ma anche toni comprensivi: hai ragione, una volta qui si poteva trovar moglie, oggi pensano solo ai soldi.

   A loro modo, questi puttanieri sentimentali non sbagliano. Tutta Pattaya si regge sulla grande Transazione.

   Soldi-sesso.

   Un procedimento lineare ed esclusivista.

   Nulla al di fuori di ciò. Perlomeno nulla che a uno straniero sia concesso di sperimentare.

   L’innamorato, per non pagare i 20 euro in più, aveva tentato il colpo gobbo: la fuga in motorino. Segue racconto – confesso, divertente – dello slalom in scooter fra tuk tuk e biciclette, con alle calcagna la puttana inferocita. L’italiano arriva dalla polizia e denuncia la tentata estorsione. Brutta sorpresa: gli sbirri lo obbligano a pagare e ci manca poco che gli facciano anche il culo. Così la ragazza se ne va sventolandogli le banconote in faccia, e i poliziotti gli intimano di non riprovarci.

   Pattaya è la Città Puttana. La polizia prende una stecca sui soldi delle marchette. Come la receptionist dell’albergo. Non si scherza con le ragazze. I loro corpi mantengono tutti. Adesso lo sai, italian.

   Di sera, la passeggiata che costeggia Pattaya Beach è letteralmente invasa dalle prostitute. Sono centinaia. Stazionano fra le palme, hanno sguardi vuoti, sono malate. La maggior parte dei turisti le evita. Alcuni si fermano a fingere una contrattazione, ma lo fanno solo per far ridere gli amici. Sanno che tanto il cuore vero della Città Puttana è la Walking Street, qualche decina di passi più avanti. Trecento metri in cui si affastellano locali su locali, bar su bar, discoteche su discoteche.

   Ci sono sterminati lounge divisi in isole quadrate, nel cui perimetro sono recluse delle bariste-prostitute che servono da bere e intrattengono i vecchi inglesi nella speranza di chiudere la transazione della serata. In questo arcipelago di banconi spicca il ring. Due thai boxers se le stanno dando di santa ragione. Ma a ben vedere i colpi sono telefonati. I due hanno mestiere da vendere. Si piegano, calcolano le traiettorie, preparano la superficie d’impatto dei colpi in modo che risuonino il più rumorosi possibile. Arriva il calcio rotante. L’atleta dell’angolo blu se lo piglia dritto in faccia e crolla a terra. Sputa il paradenti sul ring e scuote la testa tramortito. Trenta secondi dopo si sta facendo fotografare, a pagamento, con dei ciccioni ubriachi. Sorride e accetta le pacche sulle spalle.

   Difficile farsi strada nella Walking. È un fiume di gente sconvolto da correnti che si scontrano, si mescolano e deviano verso l’ingresso del locale più vicino. Sciamano i piazzisti del Ping Pong Show, attrazione storica thailandese, che rivaleggia col numero dell’asino di Tijuana. Le coppiette di russi scivolano fra i puttanieri senza immischiarsi, come olio sull’acqua. Sembrano compiacersi del folklore.

   I russi frequentano i locali per russi. Qui c’è una comunità ex-sovietica mica male. Qualche espatriato ha addirittura messo su degli strip bar pieni di ballerine ucraine e kazake.

   Sorpresa: gli occidentali non sono solo vecchi pervertiti. Ci sono anche molti giovani. A volte ragazzi che in patria non vedrebbero una donna neanche per sbaglio e invece qui sono coccolati dalle lusinghe delle professioniste thailandesi; della serie maglietta di Star Wars  e occhiali modello fondo di bottiglia. A volte uomini che con un po’ di sforzo potrebbero anche non pagare per un po’ di compagnia, ma si sono fatti diecimila chilometri di volo per provare il brivido del sesso coloniale.

   Le volpi si danno di gomito. Sono finiti in uno dei più grandi pollai dell’Asia. E lo sanno. Qui è persino inutile assumere pose da cacciatore di figa. Sarà la Meccanica della Colonia a condurre il gioco, comunque.

   Credevo che i più orridi sarebbero stati gli anglosassoni, ma mi sbagliavo, sono solo i più sbronzi. I peggiori sono gli indiani. Girano in branchi di 15/20, hanno atteggiamenti sessualmente incatalogabili, si danno pacche sul sedere a vicenda, si sorridono, lascivi. Osservano le ragazze con un disprezzo che raramente ho visto negli occhi di un uomo che guarda una donna. Eppure le vogliono.

   Dalle discoteche pompa fino in strada la musica della Colonia, che poi è quella imposta dal mercato americano. Dominano Jason Derulo e Nicki Minaj. Tutto sommato come in Italia.

   Suona malissimo, suona stereotipico, ma temo sia la verità: se una ragazza thailandese viene qui è solo per prostituirsi. Le puttane della spiaggia erano centinaia, sulla Walking Street sono migliaia. La questione non è il moralismo, ma la quantità.

   Alle donne del mestiere si affiancano – e forse sono più numerose – quelle che al ritorno a casa, grazie al web, ho scoperto chiamarsi freelancers. Ragazze che spesso di giorno fanno altro, ma che una notte ogni tanto si vestono bene, vanno dal parrucchiere, escono sulla Walking e mettono in conto di farsi scopare per soldi. Se succede, bene; se non succede, amen.

   Loro attendono davanti al bicchiere, di solito non per molto. Le puttane di mestiere le vedi twerkare, col culo incollato all’inguine dei turisti. Hanno tatuaggi. Fumano. Giocano a biliardo. Passeggiano sulla Walking a braccetto con l’amica. Hanno corpi roridi che la brezza del mare asciugherà. Mandano bacini. Sono vezzose. Sono una massa brulicante di jeans e canottiere che ingurgita gli uomini.

   Allestiscono una strana finzione, ammantata di un’ambiguità asiatica che ho notato spesso nelle ultime settimane in molte persone incontrate, uomini o donne. Dire ma non dire, fare ma non fare.

   Avvicinano i clienti, sono ottime conversatrici; la loro esperienza si misura sul livello dell’inglese parlato. Sanno accendere gli occhi a comando e modulare l’interesse verso ciò che il cliente fradicio bercia in modo da non esporsi troppo. Un interesse oltremisura aperto potrebbe indurre il puttaniere ad aspettarsi un prezzo basso, e quindi a rifiutarne uno sui valori di mercato, o più verosimilmente arrotondato verso l’alto; un’attenzione troppo fredda potrebbe spingerlo a cercare un’altra donna. Bisogna approntare al meglio il momento della Transazione.

   Il sistema le deve agevolare.

   Pattaya Bitch pensa a tutto. È un teatro, la rappresentazione è studiata. Ai limiti della perfezione.

   Qualche anno fa, seguendo il corso di Economia Politica in università, sentii dire al professor Giulio Sapelli che l’economia marcia davvero quando nelle imprese c’è divisione del lavoro. Le aziende in cui il padrone fatica spalla a spalla col suo dipendente sono robetta che non andrà da nessuna parte. Il capitalismo serio è quello della ripartizione dei ruoli.

   E Pattaya Bitch divide il lavoro.

   Il capellone thailandese truccato da Axl Rose che con la sua band sta suonando Hotel California viene pagato per mettere a proprio agio i clienti vecchi, o quelli timidi, che non sono fatti per gli approcci da discoteca, coi decibel che frantumano i timpani. La sua voce farà da contrappunto a una di quelle conversazioni ambigue che le ragazze plasmeranno in forma di piacevolezza artefatta.

   Il vecchio, o il timido, scoperà. Le ragazze avranno i soldi, le reception avranno i soldi, gli sbirri avranno i soldi.

   Perché le puttane di Pattaya sono schiave e regine di questa città.

   Ingranaggi e sangue del Leviatano che le sfrutta e nutre, così come fotte e compiace i clienti. La maniera in cui concepiranno se stesse – schiave o regine – dipenderà soltanto dal temperamento che hanno e non sarà influenzata da fattori esterni.

   Ciò restituisce loro brandelli di libertà.

   E adesso è il caso di parlare di S., la squillo di un go-go bar che mi ha raccontato la sua storia. Ma non subito, perché le persone che erano con lei nel momento in cui l’ho conosciuta suggeriscono una riflessione che mi sembra interessante.

   Dunque. È pomeriggio, sto leggendo un libro di Don Winslow che poi non mi piacerà, e sono sdraiato sulla sabbia della spiaggia di Jomtien, lontana un promontorio più qualche chilometro da Pattaya Beach e la Walking Street.

   Quando faccio la conoscenza di S., lei è in compagnia di un’amica thailandese, una puttana, e del suo cliente giapponese, un ragazzo un po’ coglione ma simpatico. I due, l’amica e il giapponese, giacciono con lei sulle sdraio all’ombra delle palme e bevono birra annacquata, e mangiano lumache in salsa piccante.

   Il giapponese e la prostituta fanno i fidanzati. Si accarezzano, si fanno i grattini, si parlano all’orecchio.

   Alt. Dolly verso l’alto, cabrata, accelerazione, profondità di campo, carrellata a planare sulle vie attorno alla spiaggia.

   Non è la prima volta che noto atteggiamenti del genere. Durante il giorno capita spesso di vedere coppiette di clienti e prostitute. Le scorgi mentre si infilano nel Seven Eleven, l’onnipresente minimarket, per fare la spesa insieme. Camminano mano nella mano, girano sui motorini con aria rilassata. Potrebbero anche sembrare dei coniugi in vacanza.

   Questa è la rappresentazione teatrale di secondo livello che Pattaya offre, quella che va oltre la Transazione, dove la tensione drammatica è garantita dai sentimenti e non soltanto dalla nuda trama del bum bum. Il cliente trova una puttana di suo gradimento e finge per il tempo della vacanza di avere con lei una relazione convenzionale. Una sorta di concubinaggio a termine che dura il tempo delle ferie prese dal posto di lavoro.

   Qualcosa di più osceno – perché più fasullo – e al contempo infinitamente più commovente del sesso becero della Walking. Decine di solitudini si danno appuntamento qui. Sono, a ben vedere, il prodotto della Colonia e, insieme, del sistema che ha creato la Colonia; figlie di uno sfruttamento biunivoco.

   In nome di un contratto non scritto, che nasconde comunque uno scambio economico, queste solitudini, qui, recitano normalità. Le ragazze si liberano momentaneamente della loro regale e regolare schiavitù, i clienti di una vita insoddisfatta. L’amica di S. scappa da Pattaya Bitch intesa come stato mentale, il giapponese dall’azienda informatica in cui lavora. Cercano di fuggire dalla Colonia, ognuno dalla propria, utilizzando però una versione smussata dello schema relazionale della Colonia, ovvero «io pagare, tu chiavare». Il risultato, viste le premesse, è il fallimento, perché è come scappare dalla prigione aggrappandosi alle sbarre.

   . È tutto finto, ma, come la religione, se ci credi è vero.

   Il giapponese e la thailandese mangeranno insieme a pranzo e a cena, si sveglieranno nello stesso letto, andranno al Seven Eleven per le compere, faranno il bagno in mare, si accoppieranno, ma magari no, perché ricaveranno più piacere dal guardarsi da fuori, sdraiati in quel letto senza fare l’amore, in virtù di una decisione comune che inscena romanticismo. Poi, quando sarà il momento, si saluteranno e finirà tutto lì.

   Il corpo di S. è bello e piccolo. Sono questi 155 centimetri di pelle bruna e carni piene che la mantengono in vita da 25 anni. La sua prigione.

   Lavora in un go-go bar della Walking Street. Mi mostra alcune foto che la ritraggono in costume da bagno o in costume di scena, roba della serie poliziotta di latex col manganello, tanto che equivoco sulle sue intenzioni. In realtà non vuole la Transazione, sbatte gli occhi enormi e vuole solo parlare.

   Vai, ci sto.

   1- Odia i turisti perché trattano male le donne.

   2- Odia nello specifico i russi perché, a quanto pare, sono particolarmente stupidi.

   3- Abita in una stanza che condivide con altre tre ragazze, tutte colleghe, figlie di Pattaya Bitch.

   4- Viene da un paesino dell’entroterra famosissimo per gli elefanti e ne è orgogliosa. «Ti affacci alla finestra e vedi gli elefanti.»

   «Bello.»

   «Capito? Voi avete i gatti e noi gli elefanti.»

   «Li ho visti gli elefanti, in Laos.»

   «Eh, ma quelli non sono veri elefanti. Sono piccoli.»

   «Laos significa tipo “il paese dei millemila elefanti”.»

   «Sì, ma sono piccoli. Credimi, so di cosa parlo, meglio gli elefanti thailandesi.»

   «Okay, basta che non t’incazzi.»

   Intanto il jap e l’amica si squittiscono cose all’orecchio. (Ah, l’amica ha una trentina d’anni, le braccia maculate di tatuaggi e non è bella quanto S.). S., com’è ragionevole, non parla volentieri del suo lavoro, e invece – giù la maschera – a questo punto è ciò che mi interessa di più per dissetare il mio voyeurismo e posizionare gli ultimi tasselli sul mosaico di questa città che mi porterò via quando partirò.

   Mi rivela, quello sì, che se fa il lavoro che fa è per mantenere se stessa e la sorella. Vorrebbe farla studiare, forse laureare, ma è dura e non sa se poi il piano andrà a buon fine.

   Le chiedo cosa sa dell’Italia.

   «Ci sono stata, in Italia.»

   Questa non me l’aspettavo, ma un colpo di clava agli stereotipi fa sempre bene.

   «Dove?»

   S. è uscita dalla Thailandia una sola volta nella sua vita. Per andare a Venezia.

   Che bella piazza San Marco. C’è il campanile. Magical.

   Le calli, i ponti. Amazing.

   Un cliente danese che si era invaghito di lei le ha pagato il biglietto del volo e una settimana con lui in un camping a Mestre. Poi l’ha rimessa su un aereo e l’ha salutata col fazzoletto bianco dalla pista.

   «Back to Pattaya, you know

   Vorrei dirle che il tizio è un tirchio. Che con la storia del campeggio ha tagliato sui costi per garantirsi cheap fucking nella città più sdolcinata del mondo. Ma, cristo, sarebbe onesto e sarebbe una carognata. Mi sa che un ricordo come questo è il genere di roba che nella città delle puttane vale oro.

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