Ivan Brentari
13/11/2017
IL NOIR CHE VERRÀ
Il primo romanzo che io abbia mai scritto, La composizione dei contrari, lo cominciai che ero diciottenne e, siccome non avevo metodo, la stesura si trascinò per cinque anni, dando vita a un’opera complessa, pretenziosa, aggrovigliata su sé stessa, piena di personaggi e completamente anarchica. Chi aveva letto il libro lo apprezzò molto, un piccolo editore mi contattò anche, ma io decisi che La composizione sarebbe stato la mia palestra narrativa e non avrebbe mai visto la luce degli scaffali di libreria.
Uscendo da un’esperienza del genere, capii che il secondo libro avrei dovuto scriverlo in pochi mesi. E così feci. La stupidità degli elefanti, un noir, nacque in una manciata di mesi, fra il settembre 2011 e il marzo 2012. Avevo imparato la lezione, quindi mi misi a lavorare in maniera più sistematica (per quanto molto meno sistematica di quanto faccia ora). Comparvero gli infernali schemini. Stilavo il piano narrativo di ogni capitolo, enucleando tutto ciò che quelle pagine dovevano aggiungere alla trama generale. La stupidità divenne l’anti-Composizione, divenne cioè tutto quello che il mio primo libro non era stato: secco, asciutto, essenziale. Anche troppo.
La storia parlava dell’omicidio di una prostituta e della scomparsa di un sindacalista. Era ambientata a Milano, ma in una Milano anonima, che avrebbe potuto essere ovunque, in realtà. Il manoscritto contava 80 cartelle, davvero poche. Nonostante le imperfezioni, fu selezionato come finalista nazionale per il Premio “La Giara” della Rai, un concorso piuttosto importante per gli esordienti, in Italia.
Ovviamente non vinsi (vinse un tizio sulla quarantina, con un libro dal titolo assurdo), ma era giusto. Oggi, brucerei quella versione del romanzo. Nel frattempo, proprio in conseguenza del Premio “La Giara”, mi contattarono per partecipare a Masterpiece, il talent show sulla scrittura, una specie di X-Factor, ma con una giuria di scrittori, ovvero Giancarlo De Cataldo, Andrea De Carlo e Taiye Selasi. Mi rifiutai di andare, e per fortuna: il programma era una boiata.
Intanto La stupidità degli elefanti viaggiava per la penisola. Arrivava – ma chissà se ci arrivava davvero – sulle scrivanie degli editor di case editrici grandi, medie e piccole. Ebbi una risposta – negativa – da Rizzoli e l’interessamento di un piccolo editore del nord che faceva e fa la sua fortuna con gialletti di qualità infima. Mi sembrò comunque un'alternativa valida: molti suoi autori erano riusciti a fare il salto verso case editrici maggiori, quindi pensai che potesse essere un buon viatico. Tale editore si disse molto attratto dal libro, ma in una mail piuttosto scarna mi chiese di apportare numerosi cambiamenti al testo. Era una modalità di lavoro altamente improfessionale: non si può pretendere da un autore di lavorare al buio (leggi: senza un contratto) e sulla base di una decina di righe di "consigli". Del signore che mi scriveva non conoscevo né la faccia, né la voce. Ciononostante mi rimisi sul testo. All'epoca non sapevo che avrei pubblicato i libri che poi ho pubblicato: qualsiasi cosa era meglio dell'immobilità. Così, dopo una decina di settimane di lavoro, inviai la versione rivista del romanzo all'editore improfessionale. L'editore improfessionale non si fece più sentire e la cosa morì lì.
Col passare degli anni, intanto, accumulavo esperienza di scrittura e La stupidità mi sembrava sempre più inadeguato. Prigioniero dell’ombra ingombrante della propria antitesi, La composizione dei contrari. Lo revisionai. Capii che il protagonista non aveva la dignità di personaggio, ma era una semplice funzione della storia, uno strumento per far succedere un evento all’altro. Riscrissi lui e riscrissi il romanzo, prima nel 2013, poi nel 2015 e nel 2016.
Ora La stupidità degli elefanti non esiste più. Il commissario che ne era protagonista nemmeno. Le cartelle da 80 sono diventate 170. Soprattutto, qualcuno ha deciso di puntarci. Il romanzo verrà pubblicato la primavera prossima, con un altro titolo, da Piemme.
Anche se è il mio quarto libro, di fatto lo considero un esordio. La biografia di Giuseppe Sacchi è un saggio del quale sono orgoglioso per vari motivi, ma appartiene a una stagione che considero conclusa. L’insolita morte di Erio Codecà mi ha divertito molto, sia nella scrittura che nella fase di ricerca, ma in tutta sincerità era un’idea di Aldo Giannuli alla quale ho semplicemente provato a dare il mio contributo. Meccanoscritto mi ha insegnato molto ed è un’opera d’avanguardia importante per me e per tutti gli altri che vi hanno partecipato.
Il noir che verrà però è solo mio ed è quello che mi piace fare. Dietro c’è un progetto, forse una trilogia, forse di più, ancora non lo so. Non l’ho scritto pensando a come si fanno i noir in Italia, ammesso che in Italia si faccia il vero noir. Non ho tenuto conto dei gusti (presunti) del pubblico. Ho seguito la regola enunciata da qualcuno più bravo di me: «Non hai nessun controllo sul successo di un libro. Non dipende da te. Quindi scrivi come vuoi, fregatene, e poi vai a promuovere il tuo lavoro».
Ancora qualche mese, e ci vediamo in libreria.