Ivan Brentari
13/1/2022
ALCUNI DANZANO PER RICORDARE (SECONDA PARTE) segue dalla PRIMA PARTE
5 febbraio 1963, Milano
Aveva visto il primo treno della sua vita nel 1922, al passaggio a livello sulla Paullese.
Aveva cinque anni e sedeva sul carro stipato di cianfrusaglie, le gambe penzoloni. Dieci fratelli e due genitori sulla via della metropoli. Lasciavano per sempre Robbiano di Mediglia.
Il vapore eruttava dalla locomotiva, si attorcigliava, inviluppava i vagoni sino a formare un proiettile di fumo. Impossibile dimenticare uno spettacolo del genere.
La lametta lo ferì. L’acqua lo svegliò. Non dormiva da trentasette ore. L’avevano portato a casa a darsi una sistemata e cambiare camicia. La Seicento del sindacato aspettava giù col motore acceso.
L’uomo nello specchio aveva quarantacinque anni. Tamponò il viso con una salvietta, baciò Assunta, scese e montò sulla Seicento.
Gli gettarono in grembo carte da firmare e proiezioni statistiche. Lo sciopero per il contratto nazionale seguitava. Il segretario Trentin l’aveva chiamato in piena notte. Indiscrezioni da Roma: i padroni stanno per crollare.
Adagiò la nuca sul poggiatesta e fece i conti. Era segretario generale della FIOM di Milano da più di quattro anni. Avevano un po’ vinto e un po’ perso lo scontro per il contratto nazionale del 1959. Avevano vinto la lotta degli elettromeccanici nel ’60-’61. Avevano vinto una miriade di vertenze aziendali e ne avevano perse una manciata. Stavano stravincendo quella battaglia per il contratto nazionale.
Finalmente con FIM e UILM lottavano insieme invece che farsi la guerra. Sessanta insieme è meglio di cento da soli. Adesso si stavano prendendo cento.
Si sporse fra i due sedili davanti. «Chi viene oggi?»
Il compagno alla guida aprì un taccuino, reggendo il volante con una mano sola. «Telemeccanica, Bovia, Grazioli, Stigler, Isaria, Bonfiglio, Loro, Chiesa.»
«Anche quelli della Parisini vengono,» disse il compagno sul sedile a lato.
La Seicento passò sotto al ponte della ferrovia che correva parallelo a viale Tibaldi. Trecento metri a Est aveva conosciuto la fabbrica per la prima volta.
La OM, Officine Meccaniche, ex-Miani Silvestri. Aveva quattordici anni; Luigi era stato assassinato da pochi mesi.
Collaudava motori. Era entrato come garzone. La trinità: garzone/aiutante/operaio. Se l’operaio va in pensione, o muore, la catena avanza e avanzi anche tu. A maggior tutela del padrone.
Il resto degli operai veniva inculato col sistema Bedaux. I collaudatori no. Loro dovevano controllare con calma. Lavoravano a isole, una trinità per ogni motore.
Pino montò sul piedistallo fatto su misura per lui. Infilò le braccia fra i pistoni.
Un operaio di un’altra isola gridò: «Ci arrivi, Carnera?»
Pino rise. Il suo operaio sbuffò. L’aiutante rise e si fece passare il raschietto.
Disse: «Speriamo che cresci, Sacchi. Se no qui ti chiamano Carnera finché campi.»
«Non me ne frega niente.»
«Dai una tirata a quella cinghia lì, Giuanìn» ordinò l’operaio.
«A casa mi chiamano tutti Pino.»
«Tira la cinghia lo stesso, valà.»
L’operaio azionò il motore. I pistoni affondavano. Era una di quelle macchine motrici lunghe e ovoidali, per le littorine. Le cinghie emanarono odore di bruciato.
«Dammi l’olio, Giuanìn.»
Le cinghie stridettero. Si alzarono fili di fumo. L’operaio spense la macchina proprio mentre suonava la sirena del pranzo.
«Non le hanno sagomate bene,» osservò sedendosi a terra di fianco al cartoccio del pranzo.
Pino e l’aiutante lo imitarono, le schiene contro la piattaforma di lavorazione.
L’operaio doveva essere in fondo ai quaranta, ma sembrava più vecchio. La faccia era come una specie di una mappa orografica. Accese la sigaretta con una guarnizione incandescente.
«Non le han sagomate bene,» ripeté.
Pino si buttò su otto michette. Solo i ragazzini possono avere questo tipo di fame. Aprì l’involto che conteneva gorgonzola, mortadella e brüsc. Gettò un occhio alle guardie che camminavano lungo il perimetro del capannone. Indossavano stivaloni e pantaloni alla zuava che ricordavano quelli della Milizia fascista.
L’aiutante s’ingozzava per i fatti suoi. L’operaio studiò Pino e gli sorrise.
«Tu sei l’unico che non mi chiama Carnera,» lo anticipò Pino.
«È vero.» Riparò gli occhi dal sole. I guardiani mimarono un presentat’arm per fare i coglioni. «Lo sai dov’è il Calzificio Santagostino, Giuanìn?»
«No.»
«A Niguarda. Sai dov’è Niguarda?»
Pino fece l’offeso per finta. «Ci abito anch’io a Milano.»
L’operaio gettò uno sguardo sull’aiutante, poi tornò a osservarlo. «Lì, al calzificio, invece delle guardie c’hanno delle monache. Delle monache col vestito da monaca e tutto il resto. Si mettono lì e le fanno telare, quelle povere criste di operaie.»
«Preti e cose così non è che a me piacciono.»
«Qualcuno di questi qui che ci fanno le ronde dicono che viene dalla Questura direttamente,» accennò l’operaio senza darvi peso. «Come una specie di secondo lavoro. L’ho sentito dire in giro.»
L’aiutante era rimasto indietro. Rise e fece un gesto osceno. «Almeno le monache sono donne, lì con un po’ di fantasia uno può…»
Poi lasciò perdere e si rimise a mangiare.
L’operaio spinse verso Pino una mezza bottiglia di vino. Pino scosse il capo. «Non te la sto mica offrendo.»
«Scusa, avevo capito male.»
L’operaio rise. «Vedi, Giuanìn. Io ho cinquant’anni e più di te ho conquistato mezza bottiglia di vino. Se tu lavori fino a cinquant’anni arriverai a questa mezza bottiglia di vino.»
Pino masticava. L’operaio stringeva la sigaretta fra le labbra, parlando dagli angoli della bocca.
«Se ti va bene, però. Che non ti ammali, che diventi bravo nel lavoro. Altrimenti non arrivi neanche alla mezza bottiglia. Questo è quello che hai davanti.»
Pino masticava più piano, adesso. «Ho capito.»
L’operaio sogguardò le guardie. «Hai capito veramente?»
Smise di masticare. «Ho capito.»
«Ho sentito di tuo fratello.»
Pino rigirò l’indice fra le verdure del brüsc. «Sì.»
«Mi dispiace, Giuanìn» disse l’operaio mentre scagliava lontano la cicca con una schicchera.
Poi l’operaio addentò un tozzo di pane e Pino tornò a guardare fuori dal finestrino. Il traffico procedeva a rigurgiti. Erano imbottigliati a Porta Romana. Di quel passo, sarebbero arrivati in piazza Duomo con mezzora di ritardo.
L’operaio in seguito gliel’aveva detto apertamente di essere comunista. Mesi dopo gli uomini dell’Ispettorato Speciale, l’OVRA, lo avevano pizzicato. In fabbrica. Di proposito. Gli avevano fatto fare il giro dei reparti in manette per intimidire i lavoratori. Era stato deferito al Tribunale Speciale. Pino ignorava che fine avesse fatto e non ne ricordava più il nome.
Nello squarcio che si apriva sotto l’arco di Porta Romana, in direzione corso Lodi, vide avanzare una colonna di operai da cui spuntavano pugni e cartelli storti. Anche loro procedevano verso il Duomo.
Un fattorino in bicicletta sgusciò fra la Seicento e un furgone. Pino ricordò di quando rubava la bici a uno dei suoi fratelli, quello che lavorava come garzone all’azienda olearia di via Santa Sofia. Appena rientrava a casa per pranzo, gliela sganciava dal carretto e sfrecciava per il quartiere. Compariva sudato a fine pasto, appena prima che suo fratello tornasse al lavoro.
La passione era nata così. Aveva 12 anni quando partecipò alla prima corsa, Milano-Paullo. Col tempo la questione si definì: un fulmine in salita, un disastro in pianura. Il suo fisico minuto era benedizione e condanna.
Ai cancelli gli operai chiedevano: «Carnera, dov’è che sei stato stamattina?»
«Su a Magreglio.»
«Ma sopra Lecco?»
«Sì.»
«’Ràmpega, su di là»
«Sì, arrampica.»
Ma non ci credevano mica che c’era andato davvero. Usciva prima dell’alba per allenarsi. Si faceva scoppiare i polmoni su quelle montagne e si precipitava alla OM per la sirena. Intorno ai sedici anni, sotto il profilo simbolico e poetico, intuì che inerpicarsi sulle salite era in parte la rappresentazione, in parte il destino della sua vita.
Intanto erano arrivati in piazza Duomo. Le insegne della Cinzano e della Coca Cola tappezzavano i palazzi. Una U di automobili parcheggiate a spina di pesce cingeva la cattedrale, lasciando libera la facciata. Sul sagrato era già pieno di operai e striscioni.
All’epoca degli elettro avevano fatto il Natale in Piazza. Ora mandavano a turno una decina di fabbriche in presidio quotidiano. La Questura disapprovava, ma davanti a 350.000 metalmeccanici organizzati aveva mollato il colpo.
I cumuli di neve lurida sembravano garitte di fianco alla statua di Vittorio Emanuele II. Sotto le suole crepitava il sale. I cortei della Telemeccanica e della Grazioli erano già arrivati e facevano carosello intorno alla piazza.
Si districò fra gli operai, verso Adriano Guerra, il cronista dell’Unità che gli faceva cenno.
«Ciao, Sacchi. Lo conosci Luciano Bianciardi?»
Gli indicò l’uomo che stava parlando con Silvestre Loconsolo, il fotografo del sindacato. Bianciardi si muoveva a scatti, ripetendo i gesti due o tre volte, come uno che non si fida.
Pino gli strinse la mano. «Ho letto La vita agra.»
«Sì. Grazie.»
«Ho detto di persona di aver letto un loro libro a sei scrittori e tutti e sei hanno dato la stessa risposta.»
«Vale a dire?»
«Hanno ringraziato e non hanno detto più niente. Sembra la cosa migliore anche a me.»
Loconsolo rise. Era un pugliese con le spalle larghe. Dal collo gli pendevano una Leica, una Voigtländer e una Yashica.
«Non pensavo che un sindacalista così impegnato riuscisse a leggere,» disse Bianciardi.
«Ho preso l’abitudine in Marina. C’erano i gruppi di quelli che giocano a carte, quelli che fanno le parole crociate, eccetera. Io ero di quelli che leggono.»
«Quali libri?» chiese Bianciardi.
«La madre, Il tallone di ferro, libri così. Quando non capivo una parola la cercavo sul dizionario Melzi, a questa maniera si impara a parlare. Con la scusa dei libri sono riuscito anche a fare la cellula a bordo della “Littorio”.»
Guerra batté le mani sulle spalle di entrambi. Bianciardi riversò il bavero del cappotto, poi lo raddrizzò, poi lo riversò.
Guerra disse: «La “Littorio” è quella corazzata affondata dagli inglesi?»
«Sì, in realtà poi la recuperarono. Mentre andavamo giù ho visto un libro che galleggiava… No, è una storia troppo lunga.» Pino guardò Bianciardi. «È vero che hai rubato il cappotto di cammello a Feltrinelli?»
Per la prima volta il viso di Bianciardi s’illuminò. «A me serviva più che a Giangiacomo.»
«Su questo non ci piove.» Lo scrittore lo squadrava con uno sguardo interrogativo. «Ti chiedi come faccio a saperlo,» interpretò Pino.
«Sì. Però se già lo sai, forse ha poco senso che me lo chieda.»
Risero insieme e rifiutarono le sigarette di Loconsolo. Si era formato un capannello di operai e curiosi.
«La vita agra sta andando bene?» domandò Pino.
Bianciardi sembrò preso alla sprovvista. Stropicciò un lobo fra le dita, poi lo lasciò, poi lo riprese. «Abbastanza. Perché?»
Pino alzò la voce. «Bianciardi è venuto per scrivere un romanzo sul vostro grande sciopero, compagni! Loconsolo gli fornirà materiale fotografico e filmini da otto millimetri per documentazione!»
Mentre Pino parlava, Bianciardi cominciò a balbettare, voltandosi a destra e sinistra in cerca di aiuto. Gli operai però annuivano al discorso di Pino.
«Giusto, ti raccontiamo tutto.»
«Proprio come stanno le cose!»
«Biancardi! Biancardi, ci devi solo mettere le parole!»
Un’operaia disse: «Al Missori danno Il cowboy col velo da sposa» anche se non c’entrava niente.
Bianciardi scrollava il capoccione. «Ma io non le conosco così bene le fabbriche e allora… dovrebbe scriverlo uno di voi il romanzo…»
Pino venne portato via mentre gli operai sommergevano Bianciardi. Gli gridò: «Migliaia di copie! Diffusione tramite partito e sindacato! Traduzione in Unione Sovietica!»
Portiera, aprire/chiudere. Sbam. La Seicento ripartì. Pino sorrise. Bianciardi gli piaceva.
Al semaforo congedò i due compagni e si mise alla guida. Sembrarono stupiti ma lo assecondarono.
Odiava guidare, però gli piaceva stare solo. Fece corso di Porta Romana, poi corso Lodi fino in fondo, poi svoltò a destra su Polesine, costeggiando l’isolato delle fabbriche. Trafilerie ed ex-Motomeccanica. Lambì il blocco delle case popolari di Corvetto, dove aveva abitato molti anni prima con Assunta. A sinistra su via San Dionigi, in mezzo ai campi; già scorgeva l’Abbazia di Chiaravalle sullo sfondo. Parcheggiò a cavallo fra la carreggiata e un campo a maggese, all’altezza della chiesetta di Nosedo.
Era l’area più bassa di Milano, piena di rogge e ragazzini che facevano il bagno d’estate. La città finiva. Campagna e cemento si mordevano, operai e contadini convivevano.
Era passato da lì, quando aveva vinto l’unica corsa della sua carriera.
Alla OM il caporeparto del collaudo era un tifoso sfegatato del ciclismo. Tra fabbrica e quartiere, dopo le prime gare, Pino era diventato una celebrità locale. Gli sconosciuti lo salutavano per strada. All’epoca del calcio non fregava un cazzo a nessuno.
Il capo aveva una formula: «Carnera, vai sulla gru.»
Nel campo prove c’erano due gru per la movimentazione dei pezzi, ma ne funzionava solo una alla volta. Il capo lo mandava su a riposarsi per preparare allenamenti e gare.
Il punto era che non vinceva mai. Staccava tutti in salita, ma i pianuristi lo riprendevano una volta che il dislivello si appianava. Li vedeva sfilare a fianco, come squali. Si beccava in faccia ghiaia e polvere.
Ecco. Lui andava bene per strappare. Il piccoletto rompe gli equilibri e sconvolge la corsa. Fa il vuoto perché gli altri ci si infilino. Sarebbe stato così anche nel sindacato, anni dopo.
Nel 1935 la Bianchi lo aveva cercato per un contratto. Diventerai il miglior gregario d’Italia, Pino. La Regia Marina aveva diverse vedute e lo spedì a bordo del “Tigre”, nell’Oceano Indiano. Sì che fu una fregatura.
Quando vinse quell’unica gara stava per morire.
Brescia-Milano. Cento chilometri da far saltare le rotule. Aveva staccato tutti subito sui monti. Mentre scendendo verso Milano le alture digradavano, pensava che gli squali lo avrebbero ripreso.
Li teneva d’occhio nello spicchio fra braccio e costato, ma quelli restavano piccoli. Probabilmente gestivano le energie. Lui invece sentiva il cuore scoppiare.
Approcciarono Milano da sud. Attraversò Paullo con gli scalmanati a bordopista che gli correvano di fianco. Uno scemo cantava Giovinezza. Gli squali avevano dimezzato il distacco.
I binari disegnavano un filo d’acciaio sopra la striscia verde dei prati. Il passaggio a livello cominciò ad abbassarsi, la campana suonò.
Gli squali erano a trenta metri. Lo intuiva dall’eco delle esultanze. Quando vide il treno attraversare il suo campo visivo, capì che l’avrebbe fatto. Il vapore eruttava dalla locomotiva, si attorcigliava, inviluppava i vagoni sino a formare un proiettile di fumo.
Accelerò. Portò il peso sulla destra. La bicicletta s’inclinò. Sgusciò sotto la barra del passaggio a livello. I binari lo sbalzarono a terra. Si rimise in piedi e continuò a pedalare. Il treno lo mancò di due metri. Dall’altra parte, gli squali inchiodavano.
Fu così che vinse, senza accorgersi di provare gioia. Non è mai davvero gioia. Sono solo cose che fai.
A Milano la folla aumentò. In via Ravenna, nel rione popolare dove abitava, tutta la famiglia si era assiepata per vederlo. A malapena si accorse che lo chiamavano a gran voce. La calca si aprì e richiuse dietro di lui come un intestino.
Tagliò il traguardo, che era nei pressi della OM, lasciò cadere la bici e barcollò verso il nulla. La città girava sul piatto di un grammofono. Gli infilarono una fascia a tracolla, sentì labbra schioccare sulle guance. Il caporeparto lo abbracciò. Pino gli vomitò sulle scarpe.
CONTINUA... VAI ALLA TERZA PUNTATA
[Per la stesura di questo capitolo: Adriano Guerra, Coi metallurgici sul sagrato, "L'Unità", 6/2/1963; Luciano Bianciardi, Alle quattro in piazza Duomo, "L'Unità", 10/2/1963; G. Consonni e G. Tonon, Milano: classe e metropoli tra due economie di guerra , pp. 405 510, in La classe operaia durante il fascismo , “Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, XX (1979 1980), Feltrinelli, 1981; Videointerviste a Giuseppe Sacchi realizzate il 15 e 31 luglio 2014. Le immagini: Pino Sacchi in sella alla sua bicicletta, primi anni Trenta; Pino Sacchi durante un comizio a Milano, primi anni Sessanta; La pagina dell'Unità col racconto che Bianciardi fece del suo incontro con Giuseppe Sacchi]