Ivan Brentari
Cinque anni fa esatti, il 13 dicembre 2016, se ne andava Giuseppe Sacchi, a quasi un secolo d’età.
Pino è stato ciclista, operaio, marinaio, partigiano, ancora operaio, sindacalista, parlamentare e molte cose ancora negli anni a venire. Per ricordarlo ho deciso di scrivere qualcosa di speciale. Non un romanzo, non esattamente un racconto. Assomiglia piuttosto, per usare un paragone musicale, a un concept album, nel quale ogni canzone/capitolo, pur con una sua melodia e una sua ritmica, segue lo stesso sentiero.
Così, attraverseremo la vita di Pino dagli anni Venti agli anni Sessanta. E in parte anche la mia, di vita, che, per un momento, è scorsa parallela a quella di Sacchi, per poi intrecciarsi in una collaborazione profonda, che ha dato vita a due libri.
Pino è stato anche uno dei personaggi di Meccanoscritto, lavoro corale uscito ormai quasi cinque anni fa, del quale Qualcuno danza per ricordare rappresenta per certi versi un prequel.
Oggi si comincia con la prima puntata di quattro. Le altre arriveranno nelle prossime settimane.
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13/12/2021
ALCUNI DANZANO PER RICORDARE (PARTE PRIMA)
16 luglio 1957, Spazio aereo sovietico.
Masticava il paradosso.
Le voci circolavano. Nel partito lo avrebbero accantonato. Troppo operaio. L’avrebbero mandato al sindacato.
Adesso aggiungevano il suo nome alla spedizione. Ci serve un operaio. Ce lo chiedono dall’Urss.
Il TU 104 imbardò. Pino percepì il senso di vuoto. Rifiutò i bliny della hostess.
Ciampino Est/Praga/Mosca. Pasto a bordo e sigarette. Se ne accese una.
Luigi Longo era addormentato, tre file avanti. Era il capo delegazione di quel viaggio-studio in Unione Sovietica, 13 compagni/e in tutto.
Pino Sacchi si smarrì nei pensieri. Tornò ad allora. Dicembre 1931, fra poco compirai 14 anni. Quello che sta per succedere lo ricorderai per sempre.
Erano nell’appartamento di via Tertulliano. Milano si sfarinava nella campagna, appena fuori la porta di casa.
Sua madre e suo padre aspettavano seduti vicini, lo sguardo perso fra le scarpe. Nove figli e figlie li guardavano. I carabinieri bussarono. Pino capì che stavolta era brutta.
L’ala dell’apparecchio sovietico affettava le nuvole. Avevano cominciato le procedure d’atterraggio. Spense la sigaretta sotto la suola.
In breve. Beppe Stalin era morto. Kruscëv ne aveva criticato l’operato al XX Congresso del PCUS. Il New York Times aveva pubblicato il rapporto segreto sulle marachelle di Baffone.
Che botta. Le onde telluriche si erano diffuse nei partiti occidentali. Compagni, urge nuova politica. Combattiamo le degenerazioni burocratiche. Togliatti aveva lanciato la Via italiana al socialismo.
L’aeroplano beccheggiò. Si accese la spia delle cinture. Il pilota parlò in russo.
La federazione milanese del PCI era in mano a Giuseppe Alberganti. Alberganti era vicino a Pietro Secchia; era un ex-operaio e un operaista. Della serie: chi ti fa la rivoluzione per davvero lo trovi in fabbrica.
Pino condivideva l’opinione, pur senza settarismi. Non si gioca la partita per dire che la si è giocata in quella squadra; la partita si gioca per vincerla. Ecco un’ossessione politica: si vince uniti. Sessanta fatto insieme vale più di cento fatto da soli. Il punto è l’obiettivo rivoluzionario di lungo periodo.
Ma Pino aveva lavorato alla OM e alla Motomeccanica. Era stato operaio. Il che lo dotava di un certo angolo d’osservazione sul mondo.
Ora. Ueeeooo ueeeooo, allarme rosso: Alberganti è uno stalinista. Ciò cozza con la Via italiana al socialismo. Alberganti è operaista e disdegna la piccola borghesia che potrebbe votare PCI: ciò ostacola l’interclassismo del partito che verrà.
Giuseppe Alberganti era riuscito a farsi confermare segretario a Milano, nel congresso provinciale del 1956. Ma quanto sarebbe durata? Cominciavano a farsi nomi per la successione. Luigi Longo, vicesegretario del partito e longa – è il caso di dirlo – manus di Togliatti, saliva spesso da Roma per un controllo.
Diciamolo: ricollocazioni. Diciamolo meglio: epurazioni. La voce più insistente: uno scivolo dal partito al sindacato.
Longo si era svegliato. Guardò sopra al poggiatesta in direzione di Pino. Pino incrociò le braccia e chiuse gli occhi. Il 1931 venne a riprenderselo.
Erano arrivati a Mediglia con le automobili dei carabinieri. Benché fosse notte, tutto il paese era in strada. Quegli sguardi cupi li scortarono fino al limitare dei campi.
L’auto imboccò un tratturo. Pino tredicenne sobbalzava sul sedile posteriore. Il carabiniere disse qualcosa che non riuscì a decifrare in uno strano accento del sud.
Da qui, è tutto veloce.
Vede un assembramento di persone. Carabinieri, poliziotti, bambini, curiosi. La scena è illuminata a giorno dalle lampade al magnesio.
L’auto si ferma. Pino salta giù e corre verso la calca. La gente si scansa.
I vestiti sono marci. La bocca è piena di terra. Vede i calzoni alla zuava quadrettati. Vede la giacca blu e il berretto rosso. Vede un coleottero nell’orbita oculare.
Quindi grida. Quindi sente gridare. Lui e sua madre Teresa stanno gridando davanti al cadavere.
Pino succhiò aria dalla bocca e sgranò gli occhi, come dopo un incubo. Le nubi si erano diradate, dietro l’oblò. Mosca apparve come una medusa azzurrina.
Il TU 104 atterrò. Il pilota lo condusse in un hangar con manovre sicure. Vennero accolti da Ekaterina Furceva, Pëtr Pospelov e Boris Ponomarëv.
Ponomarëv era il responsabile dei rapporti con i comunisti occidentali. In fondo alla scaletta, Pino strinse la sua mano. Ponomarëv s’informò sul viaggio in un perfetto italiano.
Il coleottero gli fece buh. Pino avrebbe voluto urlare.
31 luglio 1957, Stalino, regione del Donbass, Repubblica Socialista Sovietica d’Ucraina.
C’era la terra nera. Le enormi ZIS nere ci schettinavano sopra. Aveva piovuto da poco.
I sovietici lo chiamano černozëm. È un fango appiccicoso che ti si attacca agli stivali e ti tira giù. È il terriccio che l’ha messo in culo all’Armir, alla Wermacht e a Napoleone.
Gli autisti smadonnavano. Le ZIS si piantavano nel pantano e ripartivano in derapata. Pino si aggrappò alle maniglie.
Dopo Mosca, la delegazione si era divisa. Longo e altri otto avevano raggiunto Sverdlovsk, nella Russia Centrale, e poi Novosibirsk. Mario Alicata, Pino, Pavolini e Pastore erano andati in Ucraina.
La miniera “Dimitrov” era appartenuta a un certo Kazarin, prima della Rivoluzione. Dopo l’invasione dei nazisti, i minatori l’avevano allagata per ridurne la produttività. Oggi sputava 3300 tonnellate di carbone al giorno.
Quindi il montacarichi li inabissa nel ventre della terra. Quel pozzo raggiunge i 380 metri di profondità. Adesso, nell’oscurità, il 1931 se lo viene a riprendere.
Nel 1931, suo fratello Luigi aveva 22 anni.
Era scomparso la mattina del 4 dicembre, nelle campagne fuori Mediglia. I Sacchi si erano trasferiti a Milano nel 1922, ma lui tornava al paese per lavorare come mugnaio, l’impiego di suo padre Bassano.
Avevano trovato il carro carico di farina senza conducente. Il cavallo lo trainava con calma lungo il sentiero. I giornali misero in moto le rotative, ecco L’enigma del mugnaio scomparso.
Il commissario Di Fede, capo della Mobile di Milano, aveva vinto un biglietto per la provincia. Le indagini sulla sparizione chiarirono che Luigi era un ragazzo pacifico. Gli uomini di Di Fede batterono le campagne fra Mediglia, Robbiano, Zelo, Peschiera Borromeo, Pantigliate e Melzo. Vagliarono ipotesi e scremarono fandonie.
Luigi coinvolto in una rissa da osteria a Zelo Foramagno: cazzate. Luigi dentro a una storia di corna e gelosie: cazzate. Una lettera da Parigi in cui il ragazzo diceva di star benone: zero.
E proprio mentre si diffondeva la voce di un investimento automobilistico, arrivò la testimonianza dei ragazzini. Due adolescenti dichiararono di aver visto tre uomini bastonare e accoltellare Luigi, la mattina del 4 dicembre 1931.
I tre avevano la stessa età di Luigi ed erano fascisti. Uno era un proprietario terriero. Il segretario del PNF di Melzo minimizzò e rilanciò la tesi dell’investimento. Il fattore del conte Borromeo, Giovanni Folli, domiciliato presso il castello di Peschiera, dichiarò che uno degli aggressori, suo lavorante, era sui campi al momento del delitto.
Il più grande dei ragazzini ritrattò la testimonianza. L’altro resistette. Aveva solo 14 anni ma tenne duro contro i fascisti di mezza provincia.
Luigi ricomparve il 21 dicembre dove era sparito. Ovvero, ci fu portato. Aveva il cranio sfondato e una ferita da arma da taglio al ventre. I tessuti erano stati intaccati dagli insetti. Il corpo era rimasto sepolto due settimane. La necroscopia alla sala incisoria del Cimitero Monumentale confermò tutto.
A fine dicembre un contadino vuotò il sacco. Aveva assistito all’aggressione e all’occultamento. Confermò le accuse del ragazzino. Disse di essere stato minacciato di morte, perciò aveva taciuto. Il giudice istruttore convalidò gli arresti.
Il puntale percuoteva la parete del tunnel. Blocchi di carbone si staccavano. Via sui nastri, dentro nei carrelli. I minatori si limitavano a puntellare la galleria.
Pino coprì la bocca con un fazzoletto. Il compagno Ivan Ivanovič Britkov, due volte eroe del lavoro socialista, illustrava la procedura. Il compagno Zukov, una volta eroe del lavoro socialista e direttore della miniera, rivelò di parlare qualche parola di bulgaro per ragioni professionali. Dalla miniera dipendevano un club operaio, un giardino estivo, una sala da ballo, un tiro a segno, un campo sportivo, due giardini d’infanzia, un asilo nido, due mense interne, una mensa con dormitorio per i bulgari che lavoravano a contratto triennale.
La delegazione risalì in superficie e pranzò coi minatori a una grande tavolata. Pino capì che la loro vita era la sua. È tutta una lotta, la stessa. Tutto è una lotta.
Luigi girava per le campagne col berretto rosso. Chiunque sapeva che i Sacchi erano antifascisti. È un omicidio politico. Un omicidio politico. Un omicidio politico.
Il fattore del conte. Un possidente terriero.
È sempre la stessa storia. Noi contro loro. Siamo noi contro di loro.
1° agosto 1957, Volžskij, Repubblica Socialista Sovietica di Russia
La chiatta scivolava sul Volga. La pioggia faceva ribollire la superficie del fiume. Mentre il resto della delegazione si riparava sotto un tendalino, Pino rimaneva sul ponte, nostalgia dei tempi nella Regia Marina.
Imbarcato dal ’37 al ’40 sull’esploratore “Tigre” come tecnico motorista, il sergente Sacchi aveva girato il mondo. Africa e Oceania, soprattutto.
Chiuse gli occhi. Sei nella Stella del sud, quel tabarin etiope. Hai 21 anni e sei ubriaco. Il fumo inebria. Le puttane siedono sulle ginocchia dei marinai. L’oste getta panetti di hashish sui caldani.
Era rimasto una vita bloccato in Australia. L’esploratore era in avaria e il comandante non mollava i motoristi, anche se la naja era terminata.
Tornò finalmente in Italia col transatlantico Conte Biancamano. A Napoli sbarcò giusto in tempo per farsi fregare da Benito M. L’Italia abbandonava la non belligeranza ed entrava in guerra.
Aveva prestato servizio sulla “Littorio”. Una notte, a Taranto, gli swordfish inglesi avevano attaccato dal cielo. Tre siluri, due a prora, uno a poppa. I capoccia avevano detto di posizionarsi sul ponte e rispondere al fuoco. La “Littorio” era colata a picco. I marinai accorsi sulla tolda erano morti tutti.
Lo avevano assegnato al “Grimani”. A bordo del cacciatorpediniere aveva pattugliato il Mediterraneo. L’8 settembre i nazisti l’avevano arrestato col resto dell’equipaggio. Era evaso, aveva raggiunto Milano, era entrato nella Resistenza, aveva sposato Assunta, era diventato comandante di brigata, aveva contribuito a liberare il paese, aveva assunto ruoli nel PCI di Milano, era andato a lavorare alla Motomeccanica nel quartiere di Corvetto, l’avevano licenziato perché era comunista, era diventato funzionario della FIOM, era entrato nella Segreteria del sindacato, e oggi per gli operaisti erano tempi duri nel partito.
Gettò la sigaretta nel Volga. Aveva smesso di piovere. Da Stalingrado a Volžskij erano un paio d’ore di navigazione.
Visitandola a quindici anni dall’assedio, Stalingrado gli era parsa un corpo pieno di cicatrici. Pullulava di ponteggi e trabattelli. I collettivi di fabbrica acquistavano i materiali edili, gli operai costruivano le nuove case in cui avrebbero abitato.
Ora intravedeva il cantiere sfocato dietro la caligine. A riva, camion carichi di terra andavano e venivano. Gli ingegneri avevano deciso di deviare un affluente del Volga. La più grande centrale idroelettrica del pianeta, 5 chilometri di lunghezza, 11 miliardi di kw/h annui a regime. Solo quella di Bratsk, sull’Angarà, avrebbe prodotto di più una volta terminata.
Le turbine modello Kaplan erano già disposte sotto una tettoia, enormi cannoli d’acciaio da 9 metri di diametro. Una teleferica a quattro linee sorvolava la conca del cantiere. Centinaia di proiettori illuminavano i lavori durante la notte.
Volžskij era un tumore del cantiere. Pino perlustrò con lo sguardo la distesa di prefabbricati che punteggiava la tundra. Ricordavano dadi gettati su una tovaglia alla rinfusa. Ci vivevano 50.000 persone, lì, tutte vite figlie della diga. Al limitare della città iniziava la tendopoli degli studenti venuti a far pratica nel cantiere.
I sovietici li scarrozzarono a bordo delle escavatrici. Quindici gru erano issate sul tratto di diga già costruito. Nella parete di cemento si aprivano gli alloggiamenti per le turbine. In una di queste cavità vuote era stato installato un cinematografo.
Interruppero la visita per un bicchiere di vodka. Pino osservò migliaia di operai brulicare sul fondo della gigantesca fossa. Il vento creava mulinelli di polvere di cemento.
Il processo ai fascisti cominciò nel 1933. Anche Giovanni Folli, il fattore del conte Borromeo, finì alla sbarra. Aveva dichiarato il falso per coprire uno degli assassini. Una testimone lo indicava come mandante dell’omicidio di Luigi.
I ragazzini e il contadino che avevano incastrato i fascisti furono minacciati. Davanti ai giudici ritrattarono la versione di due anni prima, beccandosi un’imputazione per falsa testimonianza. Pronti via, e il dibattimento veniva rinviato a nuovo ruolo.
Intanto Folli affidava la propria difesa a Roberto Farinacci, ras di Cremona ed ex-segretario del Partito Nazionale Fascista. In sostanza: una firma sull’omicidio/un messaggio alla giuria.
Sentirono trambusto dalla diga. Gli operai si sbracciavano dai parapetti. Pino aguzzò la vista e scorse Vittorio De Sica sul telo bianco. In onore degli italianskij, stavano proiettando Pane, amore e fantasia nella nicchia-cinema.
Un manovratore balzò sull’escavatrice e mosse la benna come se stesse salutando con un fazzoletto.
4 agosto 1957, Mar Caspio, Repubblica Socialista Sovietica dell’Azerbaijan
La silurante raggiunse le 80 miglia orarie. Raffiche d’aria incanutivano il mare. L’immenso specchio d’acqua sembrava una prateria pettinata dal vento.
I compagni azeri scherzavano con la delegazione. Bakhtiar Mamedov, il direttore dei Nieftanie Kamni, distribuiva spiedini d’agnello.
Il giorno precedente avevano visitato dei siti missilistici segreti in un’area desertica. Decine di testate nucleari puntate sugli Stati Uniti. Anche gli americani avevano le loro in giro per il mondo. Ehi, la Guerra Fredda.
Luigi Longo discuteva con un marinaio azero. Aveva raggiunto la delegazione di Alicata con un Ilyuscin messo a disposizione dal PCUS.
Avevano fatto i turisti a Baku e Sumqayıt, prima di imbarcarsi verso i Nieftanie Kamni. Sulla terraferma l’orizzonte era ovunque fiorito di trivelle e l’aria impregnata di reagenti chimici. Le fabbriche producevano tubi per oleodotti, gomme raffinate, superfosfati, silicato d’alluminio. Tutto diceva: cracking a catalizzazione.
Trivelliamo. Raffiniamo il petrolio. Sosteniamo la grande Unione con i nostri 16,2 milioni di tonnellate di greggio: davaj!
Pino apprezzava gli azeri. Erano degli italiani con un accenno di occhi a mandorla. Le coppie camminavano sul lungomare e si scambiavano baci. Non c’era quella contrizione di gesso dei russi.
Il litorale di Baku appariva adesso come una nebulosa color ocra. Doveva distare ormai 100 chilometri.
La silurante rollava. Bakthiar lo raggiunse a gambe larghe per mantenere l’equilibrio. Aveva i baffi alla Confucio.
«Compagno Sacchi, non hai mai visto niente del genere.»
Bakthiar Mamedov era un ingegnere di 32 anni e un deputato del Soviet della Repubblica. Aveva visitato Venezia con una rappresentanza sovietica e si era innamorato di una ragazza di Cannaregio. Tornato in Azerbaijan, aveva studiato l’italiano.
«70 tonnellate di nafta al giorno da un foro di 5 millimetri, e ne abbiamo a decine. Esce a fontana, dobbiamo solo pompare acqua nei pozzi per mantenere la pressione. Estrarre così costa due volte meno che a terra.»
«È lì?»
Bakthiar annuì. «Quelli sono i Nieftanie Kamni, gli Scogli della Nafta.»
Il pilota spense le macchine e la silurante proseguì per inerzia.
La linea del mare era infestata di palafitte. Acciaio e legno. Le trivelle stantuffavano. Ponti collegavano una piattaforma all’altra. I camion li percorrevano, piccoli come giocattoli. Enormi banchine rialzate accoglievano i casamenti dei lavoratori ed edifici vari. Era un gigantesco ragno pieno di zampe e teste.
Bakthiar gli offrì uno spiedino. «Sotto il pelo dell’acqua là ci sono degli scogli. Nel ’49 ci hanno fatto incagliare delle vecchie navi. I pionieri hanno abitato lì dentro, all’inizio. Poi il partito ha mandato una squadra per costruire la città sul mare. Oggi abbiamo anche il circolo dei filodrammatici.»
Pino addentò lo spiedino. Il motoscafo s’infilò sotto una passerella di cemento, lambendo un pilone. Due operaie lo salutarono.
«La Venezia del petrolio.»
«Magari fossimo a Venezia,» rise Bakthiar. «Il Caspio è bello, ma Francesca è meglio.»
«Dove finisce il petrolio?»
«Batteria di separazione, abbiamo dei tubi subacquei che ce lo portano. Lì dividiamo la nafta dalla sabbia e dal gas. Poi pompiamo nei serbatoi, le navi cisterna fanno il carico e portano tutto a terra.»
«Sembra facile.»
«È facile. In questa stagione, almeno.»
Attraccarono. La silurante rimbalzò contro gli pneumatici di ammortizzazione. Visitarono la sede del Soviet, una clinica e la biblioteca. Delle ZIS fuori moda, arrivate chissà come in quella provincia dell’Unione, li portarono alla centrale termoelettrica, cavalcando i ponti sospesi sul mare. Di fianco alla centrale c’era un impianto per la distillazione dell’acqua salata.
A fine ricognizione, i delegati si sbracarono con gli operai. Fuori la vodka. Brindarono tre volte a Lenin e una al sestiere di Cannaregio, su proposta di Bakthiar. Furono distribuiti dei qutab pieni di carne di cammello.
Pino si accese una sigaretta davanti al Caspio. Il sole disegnò una macchia triangolare sulle onde.
«Pavolini dice che parli nel sonno. Chiami un certo Luigi.» Si voltò. Luigi Longo allungò la mano per farsi dare un fiammifero. «Lo stavo prendendo per un fatto personale.»
Si sorrisero. Longo accese la sigaretta.
«Era mio fratello,» disse Pino.
«Conosco la storia per sommi capi, Sacchi. Gli assassini si fecero qualche anno di carcere e tutto finì lì.»
«L’omicidio fu declassato da premeditato a preterintenzionale,» confermò Pino. «L’uomo accusato di essere il mandate venne assolto per insufficienza di prove.»
Longo annuì e trattenne il fumo nei polmoni. «Ne ho sentite a centinaia di storie del genere. Ognuno si porta dietro il suo carico di ingiustizie.»
«Quando nel ’48 mi licenziarono dalla Motomeccanica uno degli assassini si fece avanti per offrirmi un lavoro nella sua tenuta.»
«Una provocazione.»
«Una provocazione, sì.»
Rimasero in silenzio. Il funzionamento delle trivelle produceva uno scampanio costante che la risacca del mare non riusciva a soffocare.
«A 1600 metri sotto i nostri piedi è pieno di petrolio» Longo picchiettava la brace della sigaretta verso il basso. «Se lo avessimo avuto in Spagna, le cose sarebbero andate diversamente. Cercammo di prendere il Cerro de Los Angeles andandoci a piedi. Era una specie di bicchiere rovesciato, i franchisti si erano asserragliati in cima all’altipiano e ci bersagliavano. Entrammo in un bosco di ulivi con le scariche che facevano a pezzi le fronde. Era la situazione sbagliata per cedere all’estetica, ma la bellezza di quegli alberi mi colpisce ancora oggi.»
«Anche qui è bello. C’era solo il mare e gli operai hanno creato qualcosa.»
«È la volontà dell’uomo che si scontra con la natura per arrivare al progresso.» Longo sorrise. «Ma, simbolismo a parte, ho colto l’allusione politica agli operai.»
Pino spense la sigaretta. «Alberganti verrà sostituito.»
«È una possibilità, sì.»
«Chi al suo posto?»
«Ci stiamo pensando.»
«Cossutta?»
«Armando è un’opzione per la federazione di Milano.»
«In molti finiranno al sindacato. Almeno, così si dice.»
«Tu sei un duro e contemporaneamente un compagno intelligente, Sacchi. La combinazione è piuttosto inconsueta.»
«Però c’è un ma.»
«Non di natura individuale.»
«Allora di natura politica.»
«Sacchi, ci sono milioni di ma di natura politica quando si dirige un partito come il nostro. Il partito oggi ha una sua linea alla quale dobbiamo attenerci senza distinzioni, anche se esistono tanti comunismi diversi quante sono le teste dei comunisti. Tuttavia, nel complesso, siamo uomini troppo disciplinati per uscire dal partito. Tu per primo.»
«Certo.»
«Stiamo andando tutti dalla stessa parte, compagno Sacchi.»
«Sessanta insieme è meglio di cento da soli.»
«Una definizione un po’ scenografica, ma in fondo azzeccata.»
Il tratturo. L’automobile senza sospensioni. Il coleottero. Resistette alla tentazione di un’altra sigaretta.
«Quindi sarà il sindacato?»
«Tempo al tempo, Sacchi.»
«Io voglio ancora fare la rivoluzione, Longo.»
Longo rise. «Non riesco a immaginare cosa potresti fare a Milano alla testa della FIOM.»
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[Per la stesura di questo capitolo: Problemi e realtà dell'URSS : relazione sul viaggio della delegazione del PCI nell'Unione sovietica, Roma : Editori riuniti, 1958; L. Longo - C- Salinari, Dal socialfascismo alla guerra di Spagna : ricordi e riflessioni di un militante comunista, Milano, Teti, 1976; Interviste videoregistrate a Giuseppe Sacchi del 16/8/2014, 10/9/2014 e 9/6/2015; per l'omicidio di Luigi Sacchi: articoli dell'archivio storico del "Corriere della Sera"]