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15/1/2019

ALCUNE QUESTIONI FRA MANUEL VÁZQUEZ MONTALBÁN E ME (PARTE SECONDA)

Segue dalla PRIMA PARTE

Furono per me settimane liquide. Le cose andavano e venivano secondo una legge che non conoscevo e non volevo conoscere.

   Solo immaginare il futuro oltre le colonne d’Ercole della sera stessa mi angosciava. La Terra è piatta, laggiù il mare diventa una cascata che scroscia nel nulla. Non voglio finirci dentro.

   Tutto si riduceva a camminare, parlare con gente a caso, scopare/provare a scopare, scattare fotografie, mangiare, bere, dormire.

   Condividevo l’appartamento con un ragazzo e una ragazza, due amichetti originari di un paesino dell’Aragona. Erano molto più giovani di me, sui diciotto, – io li chiamavo i nens, i bambini – e parlavano a stento, completamente assorbiti dai loro computer.

   Niente di strano, quindi, che fossi sempre per strada.

   Mi piaceva andare al Poble Nou, il quartiere che qualcuno, esagerando, ha definito la Manchester di Barcellona. Perdevo l’orientamento nel reticolo di vie piacevolmente cadenti dove magazzini di mattoni rossi si alternano a ciminiere e botteghe artigiane. Sedevo sulle panchine, sbirciavo la gente; c’era un disinteresse operoso che mi piaceva molto.

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   Poi un giorno finii al cimitero del Poble Nou, davvero uno dei luoghi più belli di Barcellona. Vidi la lapide di un giovane morto. Il padre ci aveva fatto scolpire la seguente frase: “Piango mio figlio, ucciso da un branco di medici deficienti”. La tomba della famiglia AMOR era particolarmente evocativa, col cognome a caratteri cubitali che campeggiava sulla pietra. Reinventavo le vite dei morti e facevo fotografie.

   A poche centinaia di metri, il Port Olimpic, con tutta quell’architettura dall’aria moderna e inutile. Le Olimpiadi del ’92 sono state per Barcellona una catastrofe spirituale e urbanistica. A questa cosa Montalbán dedica tutto un libro, Sabotaggio olimpico. Fa parte già della sua produzione onirica, quella che si distacca dai canoni del noir e assomiglia più a una satira a viraggio nero. Fu prima delle Olimpiadi che i cantieri azzannarono la città al grido dello slogan “Barcelona, ponga’t guapa”: Barcellona, fatti bella. E invece fu come mettere dei trucchi da donna adulta nelle mani di una bambina. Il risultato: un pagliaccio deprimente. Una città che si mostrava al mondo con una maschera modernista che non le apparteneva e uccideva la propria anima popolare. Si «pastorizzava», come scrisse poi Montalbán.

   Proprio lì all’Olimpic battevo l’Avinguda del Litoral, passando in rassegna le discoteche in riva al mare. Misteriosamente Bob Sinclair e David Guetta erano quasi sempre le guest stars del sabato successivo. Mi ricordo di questo vecchio indaffarato sopra un attrezzo ginnico, proprio sul camminamento del lungomare, di fronte al Mediterraneo. Lo fotografai da dietro, lui non gradì e provò a scacciarmi con una scoreggia. Dal rumore che sentii, sono quasi sicuro che il tentativo gli costò una smerdata di mutande.

   Scendevo ancora, alla Barceloneta; un triangolo di vie perpendicolari fra loro, chiuso dalla Ronda Litoral, il Passeig de Joan de Borbò e il Passeig Maritim de la Barceloneta. È un quartiere popolare, tutto grida dalle finestre, biancheria, piazzette brulle che si aprono all’improvviso svelando la meraviglia di uno scivolo per bambini piantato nel nulla. Qui il delirio olimpico sembrava non essere arrivato. Scambiavo due parole coi vecchietti e poi una birra al minimarket e una cinquantina di pagine lette in riva al mare.

   All’apparenza tutto bello. Ma quelle giornate erano governate da un’inquietudine al di fuori del mio controllo. Riuscivo a malapena ad arginarla, o meglio a silenziarla nell’iperattivismo.

   Restavo, ma avevo solo motivi per tornare. A Milano avevo lasciato a metà la pubblicazione del mio primo libro, la biografia di Pino Sacchi. Sul versante casa editrice le cose languivano. Il fattore tempo era abbastanza irrilevante per me; molto meno per Pino, che a breve avrebbe compiuto 96 anni e rischiava di non vedere il libro pubblicato.

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   Così la mia inazione diventava urticante. Eppure Manolo e Barcellona mi ci istigavano. Quel girare a vuoto era la mia missione, dicevano.

   Li ascoltavo.

   Cercavo contatti con Montalbán e li trovai nel suo quartiere di nascita, il Raval. È un quartiere popolare nel quadrante posto a occidente delle Ramblas. C’è una bellissima biblioteca annunciata da un giardino, ci sono ristoranti etnici. Ma il vero cuore restano le case del popolino catalano e le puttane malconce dei viottoli.

   Lungo la Rambla del Raval gli striscioni chiarivano l’opinione generale circa l’indipendenza catalana: Som una naciò, nosaltres decidim.

   Un breve inciso sul fatto dell’indipendenza. Parlando coi catalani, l’indipendenza mi è sempre stata presentata come qualcosa di scontato. «Ma certo che dobbiamo essere indipendenti!». Una sera fuori da un bar mi ritrovai in una discussione. Il ragazzo catalano (#1) diceva a un altro ragazzo catalano (#2) che non bisognava dimenticare quel grave episodio tipo del XVIII secolo in cui l’esercito realista aveva ammazzato migliaia di catalani. Il ragazzo #2, che si era presentato come “el Poeta”, diceva che va bene, non dimentichiamo nulla, al referendum votiamo tutti per l’indipendenza, ma poi basta rompere i coglioni. Da allora molte cose sono cambiate in Catalogna, non so quanto queste due opinioni siano diffuse oggi. Concludo l’inciso registrando che il ragazzo #1 poi invitò per i giorni successivi la mia coinquilina, straordinariamente uscita di casa, al Salon Erotico, la fiera del porno di Barcellona, una delle più grandi del mondo.

   Torno al Raval.

   Il Raval è quello che per estetica e spirito più mi ricorda Corvetto. O meglio il cosiddetto Quartiere Mazzini, le case popolari di Corvetto, il quartiere di Milano in cui sono nato. Il Raval di Manolo e la mia Corvetto.

   La comunanza risiede soprattutto nella resistenza al cambiamento.

   Nel 1976 Antonio Ghirelli pubblicò un volume su Napoli, che contiene alcune dichiarazioni di Pasolini circa la napoletanità. Pasolini dice che il popolo di Napoli ripete i soliti gesti da secoli, le solite piccole angherie, le solite grida, i litigi, «rifiutando il nuovo potere, ossia quella che chiamiamo la storia, o altrimenti la modernità». Una maniera di perpetuare sé stessi indipendentemente dagli eventi esterni. Uscire dalla Storia. In qualche modo, sconfiggere il tempo. Finché ci si riesce.

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  Qualcosa di simile credo avvenga, o sia avvenuto, anche nel Raval e a Corvetto. A Barcellona sono il collante catalano e l’ascendenza sottoproletaria a creare un’anima comune che lotta contro la Storia. A Corvetto sono l’ascendenza sottoproletaria e la morale criminale/mafiosa (parlo ovviamente solo di una parte, minoritaria ma organizzata, di chi abita nelle case popolari di Corvetto).

   Provai a spiegarlo alla cameriera di un ristorante della Barceloneta. Dopo qualche scambio di sguardi, a cena finita, ci eravamo ritrovati a passeggiare per Barcellona fino alle cinque del mattino. Si disse d’accordo, credo più sulla fiducia, e d’altro canto il discorso non le interessava molto, e nemmeno a me, perché entrambi avevamo in mente un’altra cosa.

   Un giorno mentre camminavo per le viuzze del Raval, sentii un grido. C’era una turista paonazza che si portava la mano al collo, là in fondo. Aveva la faccia da stronzetta anglosassone. Eccolo intanto che correva verso di me: un ragazzino bruno in canottiera, i tratti grezzi del popolano, la faccia vagamente stupida. Le aveva appena strappato la collanina. Inciampava nelle ciabatte troppo grandi. Lessi sul suo volto ciò che Montalbán ne I mari del sud fa definire ad Anita Briongos, operaia comunista, «quel tipo di malvagità ridicola, meschina, dei poveri». La stessa che ho visto mille volte negli occhi e nei discorsi dei miei vicini di casa.

   Eppure non aveva ancora svoltato nella traversa, che già lo sapevo intuitivamente. Tra lui e la turista, stavo scegliendo lui.

   Tornavo al Raval di giorno e ci tornavo di notte. Lo sorprendevo sveglio, addormentato, immobile o in pieno fervore. Sapevo di percorrere le stesse strade che un Vázquez Montalbán bambino aveva percorso decenni prima. Era la mia maniera di pagare pegno ed esprimere riconoscenza per i libri che avevo letto.

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   Gira voce che, nel ’44 o nel ’45, Manolo scese le scale del palazzo umile in cui abitava con la madre e incrociò un uomo smunto; lo superò e andò a giocare nella Plaça del Pedrò. Quando tornò a casa, scoprì che quell’uomo smunto era suo padre che rientrava dalle carceri franchiste. Secondo Josep Ramoneda Molins, giornalista e amico di Montalbán, fu l’episodio seminale della vita di Manolo. Quando aderì al socialismo, quando finì nelle carceri di Franco come suo padre, quando scrisse sui giornali o quando scrisse i romanzi, quando fu appieno un intellettuale social-comunista, lo fu per «lealtà verso sé stesso e verso la sua famiglia».

   Ci sono eredità che si devono raccogliere e storie che non si possono tradire. È così che Pepe Carvalho assorbì buona parte della biografia di Manolo. Nonostante una visione filosofica meno stabile e più disincantata di quella del proprio padre letterario, doveva diventare lo strumento attraverso il quale leggere la società spagnola, leggere gli individui, interpretare la realtà secondo un’impostazione ideologica. Senza compromessi, se non quelli che tutti dobbiamo accettare, ovvero le contraddizioni che comporta l’essere umani.

CONTINUA...

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