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24/2/2022

À LA GUERRE COMME À LA GUERRE +++ In aggiornamento +++

 

La guerra in Ucraina irrompe e cambia i piani di tutti, anche i miei. Sto seguendo almeno quattro progetti diversi, al momento, ma fra i compiti di uno scrittore sta anche l’offrire le proprie parole per provare a comprendere la realtà. E quindi, dal mio angolino, mi sembra corretto non sottrarmi. Ci sarebbe molto da scrivere. Purtroppo adesso non posso permettermi di costruire un discorso articolato.

Posso – sul modello di quanto fatto con la coda della pandemia ne Il buco – proporre ai lettori alcune riflessioni in costante aggiornamento, come fossero pagine di diario, sperando che siano utili anche ad altri. Sono state originariamente pubblicate perlopiù su Facebook, ma mi premeva garantire anche a chi, legittimamente, sui social non ci sta di leggere e, se vuole, partecipare alla discussione.

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Il risveglio. 24/2/2022, PRIMO GIORNO DI GUERRA

Io, come penso tanti, ho da alcuni giorni - e oggi ancora di più - questa strana sensazione. Cioè di svegliarmi la mattina con la bocca impastata e il cerchio alla testa, e di trovare gli amici della sera prima che mi stanno facendo a pezzi il salotto di casa (io abito in un monolocale e non ho un vero e proprio salotto a casa mia, ma seguitemi nella metafora).

   Allora, un po' intontito, dico : «Ragazzi, cazzo state facendo?»

   Ma quelli non mi si filano, sono lì che sfasciano i quadri e tirano giù il lampadario (non ho un lampadario, ovviamente, ma seguitemi sempre nella metafora). E allora mi siedo sul divano tutto sbuzzato, e mi porto le dita alle tempie, massaggio e provo a ricordare.

   Ah, la presunta rivoluzione arancione, la signora bionda, quel tizio - come si chiamava, Yushenko - e il suo sospetto avvelenamento.

   Ah, i neonazisti di Pravij Sektor e Svoboda.

   Ah, su quel palco a Maidan con loro c'era anche il senatore John McCain, ma sì, quello che doveva diventare presidente al posto di Obama la prima volta.

   Ah, il massacro di Odessa alla casa del sindacato.

   Ah, la guerra nel Donbass, che poi ci è morto pure Andrea Rocchelli, quel fotografo italiano, che c'è stato un processo anche in Italia, anche se poi non gliene fregava niente a nessuno.

   Ah, il via vai di miliziani stranieri.

   Ah, poi han fatto tutti le prove generali con la guerra di Siria.

   Ah, sono anni che i russi presentano nuovi elicotteri, nuovi aerei e robe varie.

   Ah, gli americani han speso 778 miliardi di dollari in armi nel 2020.

   Ah, tutto quel sistema missilistico nell'est Europa e l'allargamento della Nato.

   Ah, il ministro della Difesa è andato in Lettonia, a Riga, dal nostro contingente - abbiamo un contingente in Lettonia? - ma i soldati non sono lì per trovar moglie, pare.

   E quindi le marachelle della sera prima mi tornano alla mente, una a una, dalle nebbie dello stordimento, diciamo pandemico, e, come spesso capita in questi casi, uno si sente frustrato, perché ha l'impressione che intorno gli altri facciano le cose senza chiedergli il permesso, e va a finire che ha voglia di spaccare qualcosa. Allora mi alzo per sfasciare, che so, una lampada, ma gli stronzi dei miei amici hanno già distrutto tutto.

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Rainbow Gun. 28/2/2022, QUINTO GIORNO DI GUERRA

Mi scuso con i tanti amiche e amici che potranno non apprezzare queste parole. Del resto uno scrittore, se vuole fare il suo lavoro, non può limitarsi a ripetere (ri-postare, ri-twittare) quel che tutti dicono, ma deve, con le parole, fare uno sforzo per spingersi oltre. Ciò credo debba valere anche per me, un autore da qualche migliaio di copie vendute, un manovale della grande fabbrica letteraria, se preferite.

   Queste manifestazioni per la pace non mi piacciono.

   Mi sembrano gesti inconsulti della folla. Convulsioni di sonnambuli. Ci vedo più la nostra voglia di ritrovarci assieme a fine pandemia, che una reale consapevolezza dei fatti di oggi e degli ultimi anni avvenuti in Ucraina.

   Manca la capacità di inquadramento storico. Ci sono tre decenni di espansione a Est della NATO che ci siamo scordati. Ci sono otto anni di guerra in Donbass – in cui paramilitari nazisti hanno sparato sui civili – che non abbiamo voluto vedere. Ci sono, rimossi, diciotto anni di ingerenze statunitensi nella politica interna ucraina.

   Ovviamente, come spesso accade negli ultimi tempi, il movimento è eterogeneo. C’è chi ha posizioni articolate e conosce i fatti di cui sopra, e chi – troppi – pavlovianamente risponde a impulsi esterni e riduce tutto a schemi binari da bene/male, in una riedizione dello scontro Vax-No Vax. Per non parlare di chi sostiene apertamente le organizzazioni neonaziste inquadrate nella Guardia Nazionale Ucraina, qualcosa di simile a ciò che avvenne da noi nel ’23 con le squadracce fasciste coagulate nella MVSN.

   La guerra deve essere respinta, come idea e come prassi. È giusto manifestare, ma va fatto bene, con obiettivi chiari. Fine immediata del conflitto a tutela dei civili; messa fuorilegge dei nazi ucraini; demilitarizzazione dell’Est Europa; superamento della NATO, che è la causa remota di tutto.

   Così com’è questo movimento per la pace può essere facilmente strumentalizzato. Anche le componenti più avanzate finiscono nel calderone, fanno numero, e quella massa viene presentata dalla propaganda come sentimento antirusso dell’opinione pubblica e come implicito via libera a un nostro impegno bellico.

   È anche in virtù di questa distorsione che il governo italiano si è sentito legittimato a inviare in Romania 1400 soldati, senza il minimo dibattito parlamentare. Proprio sull’opposizione a questo provvedimento e agli altri che, temo, seguiranno, si deve misurare il movimento per la pace.

   Facciamo guerra alla guerra a cominciare da casa nostra. Ma la lotta deve essere condotta con le giuste parole d’ordine. Una manifestazione per la pace fatta male fa più danni di una manifestazione che non si fa.

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Segue dibattito. 1/3/2022, SESTO GIORNO DI GUERRA

Che radiosa giornata.

   Immagino molti di voi stiano seguendo il dibattito - diciamo dibattito - al Senato. Una sinfonia monocorde che abbozza giustificativi energetici, pezze d'appoggio moraleggianti, e sancisce così il nostro impegno bellico, assegnando carta bianca al presidente del consiglio.

   Ieri un'amica chiedeva, giustamente, come si fa a manifestare per la pace senza farsi strumentalizzare da chi spinge per la guerra.

   Il dibattito di stamattina ispira la risposta. Bisogna disertare qualsiasi manifestazione "per la pace" a cui partecipino i partiti che stamattina si sono messi l'elmetto, cioè praticamente tutti, e le associazioni ad essi vicine.

   E organizzare altre manifestazioni e forme di protesta.

 

 

Nori/Bicocca. 2/3/2022, SETTIMO GIORNO DI GUERRA
L'Università Bicocca rimanda il corso su Dostoevskij di Paolo Nori, bravo scrittore e traduttore, per "evitare ogni forma dì polemica soprattutto interna in quanto momento dì forte tensione". Dostoevskij era russo, e sì, insomma, con la Russia che adesso fa la guerra forse non è il caso...
   Poi si scusano e dicono che il corso, a Nori, glielo fanno fare.
   Le scuse, ovviamente, non cambiano nulla. Il danno è fatto e si imporrebbero le dimissioni delle persone responsabili.
   Tutto a poche ore dalla rimozione del direttore d'orchestra Gergiev, dopo la fatwa pronunciata dal sindaco Sala.
   Libri e cultura sono fatti per unire e spiegare se stessi agli altri. Se siamo arrivati dove siamo arrivati è anche perché un pezzo di mondo ha rifiutato per decenni di conoscere la Russia, relegandola a vecchi stereotipi e annullandone la comprensione.
   È la seconda volta in due giorni che la mia città, Milano, si rende protagonista di episodi di intolleranza.
   Amici e amiche scrittori/scrittrici, ci sta bene questa cosa? Continuiamo a spompinarci a vicenda sulla fondamentale questione della schwa?

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Infopolemia. 6/3/2022, UNDICESIMO GIORNO DI GUERRA

Oggi propongo un rapido esercizio di lettura. Partiamo da un breve articolo dell'edizione online del "Corriere della Sera", sezione Economia, di pochi giorni fa.

 

OCCHIELLO: La guerra psicologica.

TITOLO: Il governo ucraino: «Putin paga 93 euro alle famiglie dei soldati caduti»

SOMMARIO: Una guerra di propaganda, inevitabile. Le informazioni, contraddittorie, viaggiano anche su Telegram, molto popolare in Ucraina e Russia. Fanno parte dello scontro a tutto campo tra i due fronti. Rimbalzano su altri social, finiscono per alimentare un cortocircuito emotivo, anche tra chi è impegnato nelle operazioni militari. Le atrocità della guerra fanno in resto. Sfiancano, demotivano, destabilizzano, possono innescare ammutinamenti e dietrofront.

 

   Al lettore più smaliziato, la notizia pare almeno dubbia già dal titolo. Viene riportata su pochissime altre testate, la più importante delle quali, "Il Tempo", la comunica con alcune modifiche, ad esempio la fonte che per il "Corriere" è l'Agenzia Nazionale Ucraina, per "Il Tempo" diventa un miliardario russo nemico di Putin.

   Il giornalista del "Corriere", molto onestamente, nel prosieguo dell'articolo sottolinea l'improbabilità della notizia, senza però tralasciare di trasmettere per intero il comunicato dell'ANU, in cui si dice che il governo ucraino è pronto a versare più di 40.000 euro ad ogni soldato russo che abbandonasse il campo, sebbene non si capisca in che modo avverrebbe il pagamento.

   Si ammette di fatto che la notizia è una cazzata, ma non la si scarta. In sostanza: è propaganda di guerra, ma te la dico lo stesso.

   Da notare che l'attenzione media delle persone su uno schermo di smartphone è 8 secondi. Ovvero il tempo di leggere solo il titolo, che, come abbiamo visto, sostiene ciò che l'articolo intero poi smentisce.

   Se è comprensibile che Russia e Ucraina, le due nazioni in guerra, utilizzino gli strumenti della propaganda, non è ammissibile che lo faccia la stampa di un paese terzo, o che dovrebbe essere terzo, come il nostro.

   Si tratta di un processo involutivo che l'informazione italiana, specie su internet, ha imboccato dalla pandemia in poi. Con una battuta, molti hanno detto: Putin ha fatto sparire il Covid invadendo l'Ucraina. Mediaticamente è vero. Ed è la dimostrazione che il discorso ansiogeno che la stampa aveva iniziato col virus, prosegue a due anni di distanza sostituendo il virus con la guerra.

Nel maggio del 2020 avevo provato a spiegare che relazione c'è tra un'informazione che spinge al panico e alla compulsione, le centrali media, e gli spazi pubblicitari. Sono meccanismi che restano validi, forse ancora di più, con l'informazione/propaganda di guerra.

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La scelta. 13/3/2022, DICIOTTESIMO GIORNO DI GUERRA

Un giorno magari ci chiariremo su ciò che riteniamo democrazia e cosa no.

   A me lasciano allibito i toni ultimativi dei capi di stato europei. La violenza verbale che sottendono. Il totale appiattimento sulle posizioni statunitensi. Il fastidio nei confronti delle – pochissime – voci di dissenso. E il fatto che la peggior classe dirigente europea dal 1945 ad oggi ci stia allegramente, l’avverbio è corretto, trascinando in quella che è già a tutti gli effetti la terza guerra mondiale, anche se forse, dico forse, in casa nostra di bombe non ne cadranno.

   Nel caso italiano il paradosso raddoppia, perché a condurre le manovre è un governo privo di una minima parvenza di legittimità elettorale e guidato da un emissario delle istituzioni europee paracadutato sul trono.

   È la seconda volta che il nostro paese viene commissariato. In dieci anni: dieci, non cinquanta. Ma è la prima volta che accade durante una guerra europea. È questo Frankenstein che sta mandando, a nome nostro, armi in Ucraina.

   Un decennio di compressione autoritaria a livello globale ci ha portati qui. Destrutturando il discorso politico e sovvertendo la prassi delle democrazie.

   Salta la grammatica e implode la semantica. Le manifestazioni per la pace vogliono la guerra. Chi fa la guerra dice di farla per la pace.

   Un pezzo di sindacati e alcuni partiti stanno per fortuna differenziando la posizione e si oppongono al riarmo e al conflitto globale. Io sono su queste posizioni. L’impressione, purtroppo, è che non basterà.

   Giorni fa, pensando al 1915, parlavo di radiose giornate, quasi per demistificare la paura. Oggi le viviamo. Vedevo l’altroieri un programma condotto da un signore di mezza età con indosso magliette giovanili, un programma che passa per intrattenimento radicale intelligente, incensare volontari appartenenti a Pravij Sektor.

   Una volta si parlava di infotainment. Qui siamo – non solo per il programma in questione, anche per qualsiasi giornale, approfondimento, telegiornale – all’emotainment. Personalmente sto facendo una fatica enorme a comprendere gli eventi, o a conoscere i numeri, e più in generale a cogliere la visione d’insieme.

   Siamo sommersi da immagini simbolo, senza informazioni aggiuntive e senza rielaborazione intellettuale. L’enorme donna incinta sulla barella col telo a fantasia anguria. Sempre quella. Il palazzo di 24 piani squarciato fra il 17mo e il 21mo. Sempre quello. Il ponte crollato, con la passerella, e il tizio che solleva il cane rosso dalle ascelle. Sempre quelli, ponte, passerella, uomo e cane.

   Una povertà di concetti che anche Luciano Canfora denunciava in un’intervista, venendo subito etichettato da un commentatore sul “Corriere della Sera”, che ha definito lui e altri intellettuali non allineati dei “putinieri”. Come intuirete, si tratta di un brillante gioco di parole che rimanda al termine “puttaniere”.

   Esprimere opinioni diverse costa oggi lo sbeffeggio e probabilmente domani l’emarginazione. Ma non ci si può tirare indietro, perché la complicità brucia di più.

AGGIORNAMENTO: Canfora cita un articolo del Guardian riguardo gli affari offshore del presidente ucraino.

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L’altalena dei grandi. 18/3/2022, VENTITREESIMO GIORNO DI GUERRA

Ma in fondo, noi, la guerra la vogliamo vedere.

   Di certo la vogliono vedere le cancellerie dei maggiori paesi occidentali, considerando gli sforzi miseri per una soluzione diplomatica. Anzi, il sistematico sabotaggio di qualsiasi trattativa.

   Paradossalmente quello che la guerra potrebbe non volerla più è Putin, che, dal suo punto di vista, si rende conto di aver fatto una cazzata.

   Però io credo che siamo proprio noi – il popolino, quelli che poi pagano – a volerla vedere.

   Abbiamo vissuto generazioni nella percezione dell’insufficienza di noi stessi. Un’inferiorità costante. Valevamo meno dei nostri nonni e padri, e lo sapevamo. Non saremmo stati mai in grado di fare la Resistenza e lo sapevamo.

   Il nostro spessore ideologico era risibile, e si assottigliava di decennio in decennio. Qualcuno ha provato a spacciare il ’68 come rivoluzione per darsi un tono.

   Abbiamo subìto la Storia. Ci siamo sentiti eterni bambini.

   Abbiamo camminato, di taglio, sul lungo crinale del Novecento, per scollinare nel terzo millennio. È stato un cammino lungo trent’anni che non siamo stati in grado di governare.

   La Storia era dietro lo schermo della televisione. Ci è stato concesso solo di scegliere se guardare o no. Venivano giù le Twin Towers, macellavamo centinaia di migliaia di persone in Medio Oriente fra Iraq, Afghanistan e Siria, falliva il sistema bancario.

   Eravamo sempre lì, con quel bagliore cilestrino del televisore che ci danzava in viso.

   Alcuni inseguendo il protagonismo popolare, hanno trovato quello individuale, e sono andati a combattere in Siria, o proprio in Ucraina. Hanno verificato che la guerra è un’opportunità, anche se terrorizza.

   Sono ormai praticamente morti tutti coloro che hanno vissuto la Seconda Guerra Mondiale. Orfani di chi soffrì, oggi sentiamo di voler diventare grandi. Vogliamo vedere *se è vero*.

   I governanti, come bambini eccitati e intimiditi davanti all’altalena senza imbragatura, vogliono provare l’esperienza e passare alla Storia. Vogliono piangere le lacrime per le preghiere esaudite.

   C’è un compiacimento, più ritratto ma altrettanto febbrile, nei giornalisti. Finalmente, commentano qualcosa di enorme. Sembrano tifare per l’incidente. Per quel clic che sputtanerà tutto.

   E poi, appunto, ci siamo noi.

   Quando avevo circa dieci anni, nel palazzo in cui abitavo morì una donna. Viveva al pianterreno ed era un’accumulatrice seriale. Sola, nessuna conoscenza esterna.

   La sua casa era inondata di roba che trovava per strada. Una spessa coltre di cianfrusaglie diffusa su cinquanta metri quadri d’appartamento. Resti di pasti, giornali, chincaglieria, sacchetti di plastica, tritume schifoso. Così quando cominciammo a sentire l’odore non ci facemmo poi troppo caso.

   La porta, si scoprì, era accostata. Qualche balordo del cortile aveva provato a entrare nell’appartamento, ma il battente non si muoveva perché i rifiuti arrivavano fino alla maniglia.

   Quindi giunsero i pompieri e tirarono fuori il cadavere.

   La mattina andavo a scuola e capii subito dal trambusto quello che era successo. Scesi le scale dal terzo piano, a volte accelerando, a volte rallentando, lo sguardo tuffato giù nella tromba. Il corpo era adagiato su dei fogli di giornale. La testa era gonfia e blu, e gli occhi erano due palle violacee. Le passai a fianco e andai a scuola.

   Era stato impossibile distogliere lo sguardo. Il fascino della sciagura era troppo forte. Quella faccia era uno specchio, potevo essere io, mia madre, un uomo incontrato per strada. La partecipazione alla tragedia dava un senso. Era benzina e spingeva le gambe ad andare.

   Oggi ci capita questo con la guerra. L’idea della guerra riempie i nostri vuoti, sana le nostre inadeguatezze e ci dà l’illusione di guardare al futuro e alla Storia come qualcosa che finalmente ci riguarda.

   Se solo ci fermassimo a riflettere – e non credo che ne siamo in grado, perlomeno non come comunità umana globale – ma se solo ci fermassimo a riflettere, forse ci renderemmo conto che abbiamo la possibilità di soffocare subito questa guerra e raggiungere il protagonismo della nostra storia rifiutando quello che tutte le altre generazioni hanno subìto e accettato.

   Ci possiamo provare? Ci possiamo organizzare per provarci?

La complessità buona e la complessità cattiva. 23/3/2022, VENTOTTESIMO GIORNO DI GUERRA

Il primo è stato Marc Innaro, inviato Rai a Mosca. Eravamo nei primissimi giorni di guerra. Durante un dibattito televisivo disse che, ben prima dell’invasione russa in Ucraina, era stata la NATO ad espandersi ad est negli ultimi trent’anni. Un’affermazione neutra, che registrava gli eventi così come si sono svolti. Fu il gelo. Venne in breve sommerso dalle voci degli altri ospiti e accantonato.

   Da quel momento, la situazione si è evoluta. Le voci atlantiste e a sostegno dell’invio di armi a Kiev si sono moltiplicate; contemporaneamente, però, qualche opinione critica, in netta minoranza, ha cominciato a districarsi nella melma, penso a Rovelli o Canfora, intellettuali di livello. Qualcuno ha pensato di stilare sulla stampa vere e proprie liste di proscrizione dei disfattisti interni, in un clima da Dolchstoßlegende – il mito della pugnalata alla schiena – dopo la Prima Guerra Mondiale in Germania.

   Ecco quindi l’etichetta idiota e derisoria del “né né” da dare in pasto all’opinione pubblica. Ed ecco la formuletta da recitare per soffocare sul nascere qualsiasi discussione: «C’è un aggredito e un aggressore».

   A ben vedere, le voci critiche, lungi dal sostenere Putin, invitavano a una analisi più complessa dei fatti storici, e a superare il livello base dell’informazione che non si schioda dal racconto emotivo e privo di ragionamento: bombe/profughi/sangue/la nostra terra/le armi/no fly zone.

   Da quel momento, il paradosso. Scrittori e intellettuali interventisti cominciano a screditare la “complessità” in quanto tale.

   Qualsiasi tentativo di comprensione più profonda delle forze in campo o degli eventi diventa sostegno a Putin. I buoni sono chiaramente di qua, i cattivi chiaramente di là, e noi tifosi dei buoni siamo di qui.

   Discussione chiusa. Punto.

   È un'atmosfera da Ispettorato Speciale dell’Ovra ed è una pagina nera per la cultura italiana. Vedere degli intellettuali rifiutare la complessità dà la stessa pena di vedere un credente che viene obbligato a rinnegare la propria fede.

   Ne ho presi due esempi. Contano le idee, quindi non nominerò gli autori, proprio per evitare di replicare a parti inverse la logica delle liste di proscrizione. E perché tutte le opinioni sono legittime senza che le si debba sbeffeggiare.

   Il primo autore inizia con l’elogio della complessità. Ma non tutte le complessità. La complessità che va bene è solo quella che si limita a un generico “dipende”, quella che ci rende noto che il cuore degli uomini tutti è nero, vittime e carnefici. Ma i buoni devono restare i buoni e i cattivi devono restare i cattivi. Infatti arriva l’affondo politicamente rilevante: «Quando, al contrario, il richiamo alla complessità viene fatto per confondere vittima e carnefice, come in certi dibattiti sto vedendo succedere per l'invasione brutale dell'Ucraina, un esercizio di profonda umanità (quale in fondo dovrebbe essere il richiamo alla complessità) diventa anche involontariamente il suo contrario: la via elegante per la menzogna. In questo caso (ma siamo davvero arrivati al punto da doverlo dire?) Putin e il suo regime rappresenta il carnefice, il popolo ucraino la vittima.»

   L’autore – che mette in coda, un po’ buttato lì, anche  un riferimento fumoso e parificato ai crimini di nazismo e stalinismo, come l’ultimo pizzico di sale prima di spegnere il fornello – dà per scontato che la guerra sia fra Russia e Ucraina, autocrazia e democrazia. E non, come gli eventi indicano, un conflitto NATO-Russia per interposta Ucraina (che comunque tutto è tranne che una democrazia: Zelensky ha appena soppresso 11 partiti). All’intervento del resto manca qualsiasi riferimento ai fatti. È una riflessione legittima, ma puramente ideologica e teorica.

   Il secondo caso. Identici i punti di partenza. 1) È una guerra fra Russia e Ucraina, la NATO non c’entra niente (occhio ai toni da cinegiornale: «Ucraina oggi non coincide con la NATO, ma con le vicissitudini di un popolo che rivendica con decisione e legittimità il suo diritto a non essere sottomesso»… Ma esiste davvero un popolo ucraino come corpo univoco, così come esiste davvero un popolo italiano, oppure ci sono i ricchi, i poveri, le donne, i militari, la classe media, etc etc?). 2) È uno scontro fra dittatura e democrazia.

   Nessuno dei due assunti viene argomentato sulla base di eventi accaduti.

   L’articolo prosegue con una deviazione, davvero arronzata alla meglio, sul concetto di desiderio in psicanalisi. Gli ucraini desiderano essere liberi (eh, grazie), e tale desiderio li rende forti come Davide contro Golia (bella metafora); ecco ancora l’Istituto Luce: «la nuda fede, è davvero la forza indomabile del suo desiderio [di Davide]».

   Ma di Davide all’autore in realtà non frega un bel cazzo, era solo un pretesto. Il nocciolo dell’articolo, anche stavolta, è nei paragrafi finali ed è più scoperto e molto meno bilanciato del primo (i corsivi li metto io): «L’invocazione artefatta della “complessità” contro la sterile propaganda di coloro che vorrebbero distinguere senza indugi la democrazia da altre forme autoritarie di governo, l’equiparazione tra la democrazia americana e l’autocrazia putiniana, la critica alla NATO e all’Europa che finisce di fatto per attenuare le responsabilità criminali della Russia di Putin e del suo regime nell’aver provocato questa guerra, insomma tutta la retorica variegata dell’equidistanza, rivelano, in realtà, delle incrostazioni mnestiche profonde della sinistra ideologica e populista che le impediscono di aderire sino in fondo alla cultura della democrazia».

   Oh, ecco, finalmente. Tutto il pezzo voleva arrivare qui e qui arriva. Molto più del primo, potrebbe essere un caso di studio per l’utilizzo traviato dell’aggettivazione e per la scorrettezza delle categorie storiche, e per l’imprecisione degli eventi. In fondo però, i due autori dicono la stessa cosa.

   Questa semplicità manichea da bene/male, giusto/sbagliato, verrebbe da dire vax/no vax, è tanto sconcertante, provenendo da due intellettuali, quanto perfettamente spiegabile. Due anni di pandemia hanno sicuramente appiattito il dibattito generale su qualsiasi argomento, contagiando, è il caso di dirlo, anche intellettuali importanti. In fondo però il processo d’involuzione era già in atto, tramite lo svilimento del linguaggio indotto nell’élite culturale da Twitter, l’opportunismo, e il generico pararsi il culo.

   Ma c’è dell’altro.

   Premesso che ciascuno pensa e scrive quello che vuole, inizialmente immaginavo che interventi del genere fossero dettati più dal conformismo che da tendenze propagandistiche, e sicuramente almeno in parte è così. C’è anche la paura di perdere lettori o recensioni sulla stampa, se ci si schiera – o anche solo se ci si posiziona – male: altrettanto vero.

   Poi però ho scandagliato meglio gli articoli, non solo i due in questione.

   Non c'è mai un cenno a fatti reali. Mai.

   Questi non sanno nulla. Niente. Non hanno la minima idea di cosa sia accaduto in Ucraina prima di un mese fa.

   La loro è una presa di posizione politica, ma è anche un fatto individuale. Rifiutare la complessità significa perdonare la propria ignoranza. Un'assoluzione in cui sacerdote e peccatore coincidono.

[Il video di Marc Innaro, che avevo caricato prima del pezzo, è stato rimosso da Youtube]

 

 

L'inno. 23/3/2022, VENTOTTESIMO GIORNO DI GUERRA

Al volo. Dieci minuti fa, su LA7, Atlantide ha aperto con "Kiev Calling", inno della resistenza ucraina, scritto dai Beton (band metal di Lviv) sulla musica di "London Calling".
   Il testo della canzone, il fatto che il gruppo venisse dalla Galizia, il genere musicale mi hanno insospettito. Google: beton band + nazi. Bum subito,
articolo dell'Indipendent: sono fasci.
   Tutto trasmesso in televisione senza spiegare, col solito piglio da "viva l'indomita resistenza ucraina".
   Beccati così, in venti secondi, completamente a naso. Viene quasi da ridere.
   L'Indipendent riporta le dichiarazioni di Billy Bragg: “We can argue about the meaning of ‘London Calling’ and what Joe Strummer would or wouldn’t have said about the lyrical changes, but we can be damn sure that he would not have allowed his song to be utilised by a band that expressed their support for fascists”..

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Le armi restano. 24/3/2022, VENTINOVESIMO GIORNO DI GUERRA

Caro Marione,
mi sono informato ed è venuto fuori che le armi non sono filoni di pane, che tu li regali a qualcuno, quelli se li mangiano, i filoni non ci sono più, e morta lì.
Le armi restano.
Cioè, mettiamo pure che questo conflitto finisce - a parte il fatto che mandare armi pesanti a dei paramilitari nazisti a me non piace, ma lì posso anche capire che invece a te va bene, sai, ognuno è diverso - però appunto, dicevo, termina la guerra e le armi restano sul campo. Secondo te, questi Stinger, dove vanno a finire? Colonnelli, generali, e miliziani - converrai che non stiamo parlando delle categorie di persone più oneste - se li rivendono in altri conflitti per gonfiarsi le tasche. Te la butto lì: Africa e Medio Oriente.
È chiaro che non è che sono noccioline, quindi il trasbordo internazionale del materiale comporta impegni logistici che solo organizzazioni criminali internazionali possono garantire. E non lo fanno gratis. Forse avrai sentito che alcune di tali organizzazioni hanno sede in Italia.
A quel punto non vorrei che coi soldi delle mie tasse ammazziamo un ragazzino, che so, in Tanzania e nutriamo le mafie.
Mi girerebbero proprio i coglioni.

La tigre bianca. 7/4/2022, QUARANTATREESIMO GIORNO DI GUERRA

Molti anni fa, al Festival del Cinema Russo di Milano, vidi un film. Si intitolava Белый тигр, Bely Tigr, cioè La Tigre Bianca.

È la storia di un infernale tank nazista, appunto la Tigre Bianca, che in URSS nessuno riesce a sconfiggere. Allora i vertici dell'Armata Rossa prendono i tre migliori carristi sovietici e li lanciano sulle sue tracce. I carristi hanno uno scontro col tank, lo sconfiggono, ma non lo distruggono. Così la Tigre si ritira nel bosco, fra le betulle. Morale: cari compagni, il nazismo è sempre in agguato e può tornare.

   Di per sé il film non ha un gran valore artistico, anzi. È un colossal militare di propaganda come ce ne sono a decine anche a Hollywood.

La storia però ci dice molto dell'accezione antinazionale che i russi hanno del termine "nazismo". Per loro i nazisti sono gli invasori del paese, quelli che hanno causato la morte di circa un quinto della popolazione. La parte politica della questione, sebbene non irrilevante, è molto più sfumata.

   Nella sequenza finale, Hitler (cioè un attore che lo interpreta) viene intervistato da un giornalista, e dice che in fondo lui ha provato a realizzare il sogno europeo: sterminare contemporaneamente ebrei e russi.

F   u chiaro a me, persino all'epoca (il film è del 2012), che il riferimento era all'Unione Europea. Rivisto oggi, impressiona. Sono dieci anni che veniamo percepiti come una minaccia mortale e non abbiamo saputo cogliere i segnali che ci arrivavano. Anche se questo non cancella le responsabilità dall'altra parte, mi chiedo cosa sia stato fatto sul nostro versante per evitare la tragedia che stiamo vivendo, e la risposta mi sembra sia "poco".

[Il film ha i sottotitoli in italiano]

Il nocciolo della questione. 13/4/2022, QUARANTANOVESIMO GIORNO DI GUERRA

Nel settembre del 1938 Mussolini rientrò dalla Conferenza di Monaco. Gli italiani lo osannarono in quanto salvatore della pace. Il MinCulPop diramò una velina in cui si intimava ai giornali di minimizzare il giubilo della popolazione.
   Il duce era incazzato: 16 anni di fascismo e ancora non avevamo assorbito un sano spirito guerresco.
   Il punto, sotto sotto, mi sembra che sia quello ancora oggi. A noi la guerra non piace.
   Ogni trasmissione televisiva ha il suo/a ucraino/a in mimetica che viene a chiederci area di non sorvolo e armi. Questo non ci piace. E non ci piace a tal punto che, forse avrete notato, ora vengono invitati ospiti russi nella speranza che scatenino la medesima sensazione di repulsa, ma indirizzata sull'obiettivo opposto.
   Non funzionerà, perché il punto non è quello. Perché, semplicemente, al di fuori dei salotti televisivi, o delle assemblee di vertice dei partiti interventisti, la maggior parte di noi non vuole la guerra e non vuole alimentarla con l'invio di armi. Tutto qua.
   Nonostante una propaganda martellante, davvero martellante, i sondaggi indicano chiara un'avversione diffusa verso qualsiasi ipotesi di intervento.
   È un piccolo lume che abbiamo dentro e potrebbe essere la nostra salvezza.

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Le due Resistenze e sulla via del 25 aprile più difficile della Storia. 22/4/2022, CINQUANTOTTESIMO GIORNO DI GUERRA

Francamente a me sfugge la ragione per la quale dovremmo sentirci obbligati a confrontare/parificare la Resistenza italiana con quella ucraina. Sono due eventi molto diversi, sviluppatisi in circostanze diverse, ognuno con le sue caratteristiche.

   Ecco qualche differenza, solo per registrare le reciproche specificità. In ordine sparso e senza l’intenzione di creare una classifica di valore etico.

   La Resistenza italiana era composta di truppe irregolari, sostanzialmente civili in armi (con qualche eccezione di personale militare). In Ucraina abbiamo truppe regolari contro truppe regolari. A fianco dell’esercito ucraino, ma ormai perfettamente inquadrati nella Guardia Nazionale dal novembre 2014, ci sono dei battaglioni (ex)paramilitari. La popolazione civile, sinora, sostanzialmente non è scesa in campo.

   La Resistenza ucraina riceve armi straniere a ritmo di – solo dagli USA – 800 milioni di dollari a settimana. La Resistenza italiana ricevette armi americane, così come Sten inglesi, ma solo fino a quando poi gli alleati decisero di chiudere il rubinetto: non volevano che i resistenti, in particolare comunisti, acquisissero troppo prestigio nella lotta; ragione per la quale lo stesso Harold Alexander, responsabile per gli Alleati nel Mediterraneo, chiese ai partigiani di interrompere l’offensiva contro i nazifascisti nell’inverno ’44-’45 (e non fu ascoltato).

   Nella Resistenza italiana erano assenti questioni etniche. C’era un fatto di liberazione nazionale, quello sì, ma il nocciolo era essenzialmente politico: bisognava sconfiggere il nazifascismo. In Ucraina invece, soprattutto presso certe frange, sembra esserci un odio etnico-culturale verso la minoranza (maggioranza in alcune aree) russofona, così che in determinate regioni del paese c’è la guerra contro i russi, ma anche la guerra contro la popolazione russofona. Del resto, sono distinzioni abbastanza scioviniste, sia per l’indubbia comunanza culturale, sia per il fatto che parlanti russo e parlanti ucraino vivono insieme da secoli.

   Alla nostra Resistenza presero parte militanti di partiti politici e organizzazioni repressi durante il ventennio fascista. In Ucraina è il governo a condurre le operazioni e i battaglioni politicamente più schierati – a destra – vengono da forze politiche che escono da un decennio circa di espansione del consenso e libera, liberissima attività.

   In ultimo, la nostra Resistenza era antifascista, la Resistenza Ucraina no.

 

   Anche se molti per conformismo, quieto vivere, o malafede, stanno sorvolando sul problema, non si tratta di una questione secondaria.

   La presenza del neonazismo in Ucraina è una criticità reale e, fatemi dire, ben nota alle polizie di mezzo mondo, compresa DIGOS italiana e FBI americano. E non si limita al famigerato Battaglione Azov, o al meno noto Battaglione Aidar.

   In Ucraina ci sono almeno tre organizzazioni neonaziste grosse. Svoboda (dal 1991 al 2004 Partito Nazional Socialista d’Ucraina), Pravij Sektor, Corpo Nazionale (colonna politica del battaglione Azov). Ad esse si affiancano S14, branca giovanile di Svoboda, e Milizia Nazionale, squadracce legate a CN che pattugliano le strade e bruciano campi rom; sarebbero da aggiungere alcune sigle minori, ma lasciamo stare. Le organizzazioni di cui sopra sono in rapporti costanti con realtà neonaziste in tutto il mondo: Rise Above Movement e AtomWaffen Division (USA), Casapound (IT), Identitaires (FRA), Nationaldemokratische Partei (GER), Escudo Identitario (POR), e tante altre. Il capo della polizia ucraina è stato per circa due anni Vadym Troyan, simpatizzante nazi e membro di Azov. Oltre che nella polizia, militanti neri si trovano a pioggia nella Guardia Nazionale e nello SBU, il servizio di controspionaggio.

   Anche se non fosse scritto nella nostra Costituzione – e lo è, ma facciamo finta di no – per me antifascismo e antinazismo restano valori fondamentali. Chi li condivide mi va bene, chi non li condivide non mi va bene. E come me credo ci siano altre persone.

 

   Ora, visto che è obbligatorio ormai, dichiaro che: 1) Non sostengo Putin, che considero un governante sostanzialmente di destra con tendenze imperialiste, al pari dei presidenti Bush(x2), Clinton, Obama, Trump, Sarkozy, e fermiamoci qui; 2) Per me l’invasione è sbagliata, anche perché probabilmente fornirà ulteriore benzina alle organizzazioni di estrema destra, senza contare la marea di poveracci che manderà sottoterra. 3) Non penso che tutti gli ucraini siano nazisti; 4) L’Ucraina è il cuore dell’Europa, e un paese molto bello che ci ha dato tanta letteratura e altre cose, e Ucraina e Milano, dove sono nato, per un certo periodo hanno fatto parte della stessa entità statale, cioè l’Impero Austriaco, tutto questo per dire che se c’è un posto dove non vorrei che ci fosse la guerra, quel posto è l’Ucraina; 5) Sono al fianco dei civili ucraini, che sono le vittime vere della guerra, e lo ero per la verità già dall’esplosione del conflitto nel Donbass.

 

   Questo minimo inquadramento storico, evenemenziale e ideale sarebbe stato superfluo solo una decina di anni fa. Oggi no, oggi serve specificare.

   C’è da chiedersi perché un bel pezzo di commentatori e/o gente di sinistra il fatto dei nazi non voglia vederlo. Al riguardo ho una mia teoria, e cioè che negli ultimi anni l’aggettivo “fascista” è stato sprecato in contesti inadeguati, col paradosso che quando poi ti trovi davanti i fascisti veri non dici un cazzo di niente.

   Ricordo una romanziera-presentatrice radiofonico/televisiva che qualche anno fa dovette affrontare una grave aggressione. Un pirla aveva preso una sua foto, mettendoci sotto un virgolettato di parole da lei mai pronunciate. La romanziera-presentatrice insorse e dal suo scranno twitteriano tuonò: “È fascismo!”. Solo a titolo di esempio.

   Considerati il grande mescolone lessicale e de-ideologizzante, l’impoverimento del dibattito, ai quali abbiamo assistito negli ultimi due lustri, non mi stupisce per niente che molti fatichino a orientarsi, proprio adesso che servirebbe sapere dove dirigersi e cosa fare per provare a evitare una catastrofe.

   E, quindi, nemmeno mi stupisce che a qualcuno venga in mente di portare le bandiere della NATO al 25 aprile.

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Le belle bandiere. 25/4/2022, SESSANTUNESIMO GIORNO DI GUERRA

3 (tre) bandiere NATO, nascoste nello spezzone "ucraino" del corteo di Milano, fra cori nazionalisti, cartelloni inneggianti a battaglioni neonazi e qualche testina rasata.

   Una goccia d'olio, scivolata sostanzialmente sull'indifferenza del resto dei manifestanti.

  Si è trattato però di un'offesa e di un innesto innaturale per linguaggio e obiettivi, imposto al popolo del 25 aprile da forze politiche ormai estranee ai valori della Resistenza. Un innesto che il corpo ha rigettato senza conseguenze. Potevano esserci disordini e invece la manifestazione ha dimostrato grande maturità. Qui c'è una massa di persone che non vuole la guerra. Che sta trovando parole d'ordine precise. E che non si piega al sogno interventista di sovrani senza popolo.

La minore età. 6/5/2022, SETTANTADUESIMO GIORNO DI GUERRA
La semplice presenza fisica della opinione sbagliata in un dibattito non significa che il dibattito sia democratico. La maniera in cui viene condotta la discussione è fondamentale, così come la cornice in cui è inserita.
   Ipotizziamo una squadra verde e una blu. In uno studio pavesato di verde, in cui il presentatore indossa uno smoking verde, siedono ospiti vestiti tutti di verde, e anche il pubblico è illuminato da luci verdi. Entra l'ospite blu, si siede sull'unico elemento blu della scenografia, riceve una domanda provocatoria e viene interrotto a pernacchie. Il presentatore in smoking verde prende la parola per dire che le bugie blu dell'ospite blu fanno risaltare la verità verde delle opinioni dello schieramento verde.
   Di martedì guardavo un programma che preferisco non menzionare ed è successo sostanzialmente questo.
   Poi, chiariamo. I giornalisti russi invitati nelle nostre trasmissioni sono abbastanza imbarazzanti. Quelli ucraini non sono nemmeno giornalisti, perché da loro ci si aspettano solo le lacrime per gli orrori della guerra, o il coro "Armi armi armi". Il caso del "giornalista" ucraino che minaccia di morte un russo in diretta tv è il più noto, ma ce ne sono altri.
   A entrambi gli schieramenti si fa presidiare il rispettivo campo, come degli spaventapasseri, senza pretendere un contributo di informazioni. Di fatto li si spersonalizza per farne semplici simboli di opinioni che si danno già per scontate, e che non è utile discutere, anche se all'apparenza è in corso una discussione. È la logica dell'infotainment, niente di nuovo.
   È grottesco però che, in un contesto del genere, giornalisti e personaggi tv utilizzino il "polo negativo russo" per dimostrare la propria cristallina imparzialità e professionalità: ecco il propagandista, e ora ammirate la vera informazione occidentale che non guarda in faccia a nessuno.
   Lungi dal provare la superiorità della nostra informazione, questa sceneggiata ne certifica la minorità, e la minore età, per così dire. Dunque è così strano che il comitato che controlla i servizi segreti di un paese in guerra, com'è l'Italia in questo momento, decida di assumere un ruolo di tutoraggio?

 

Traffico di armi. 16/5/2022, OTTANTADUESIMO GIORNO DI GUERRA

L'articolo di John Hudson sul Washington Post conferma quello che scrivevo il 24 marzo. L'Ucraina era già uno dei centri di contrabbando d'armi più rilevanti del mondo. Buona parte degli armamenti che mandiamo (e abbiamo mandato dal 2014) in Ucraina ingrossa il traffico illegale. Tutta roba che nel giro di 5-10 anni finirà nelle mani di gruppi terroristici e in guerre dimenticate dai nostri democratici riflettori.
   Andrebbe spiegato agli armaioli che continuano a sostenere l'invio di materiale bellico a un paese che scoppiava, letteralmente, di forniture militari ben prima di fine febbraio. Ma dubito che questi fenomeni, che poi pontificano sul web, in tv e su carta stampata, frequentino la stampa internazionale.

Ancora le armi, dichiarazioni di Gratteri. 26/5/2022, NOVANTADUESIMO GIORNO DI GUERRA

In apertura del filmato, le dichiarazioni del procuratore Gratteri sul rischio di traffico d'armi in Ucraina.

 

 

Chiusure e ripartenze. 9/8/2022, CENTOSESSANTASETTESIMO GIORNO DI GUERRA

Devo delle scuse ai lettori, mi sono inabissato per una lunga fase di lavoro e non ho potuto scrivere per il sito. Non che abbia smesso di seguire, ad esempio, quello che succedeva in Ucraina, come in maniera sconcertante ha fatto dal centesimo giorno di guerra la stampa italiana. Semplicemente, davvero, non ce la facevo.
   La guerra sonnecchia e continua. Noi facciamo altri sogni, nel più tipico processo di rimozione. Ma la biglia rotola e la guerra globale arriverà, forse spacchettata e distribuita in giro per il mondo, magari alle periferie degli imperi in conflitto, sperando che si noti meno.
   Per quel che conta l’opinione di uno scrittore, ho continuato, e continuo, a esprimere la mia contrarietà verso qualsiasi coinvolgimento del mio paese. L’ho fatto qui, e
sulla stampa quando mi è stato possibile. Il silenzio sul tema della quasi totalità degli autori ed intellettuali italiani (anche “d’area”, della sinistra “de sinistra”, di ambito anarco-autonomista, movimentista, etc etc, insomma dalla gente che un po’ ti aspetteresti), resta una pagina nera della storia culturale italiana. Anche peggio della piatta replica degli input governativi messa in atto dagli scrittori che dovevano coltivare la propria rendita di posizione all’interno del sistema editoriale.
   Ho scritto spesso di Ucraina, ben prima del 2022, e non solo in interventi volanti. Il terzo romanzo del commissario Valtorta, steso fra l’agosto del ’18 e il marzo del ’20, affonda le radici per buona parte negli eventi ucraini post-Maidan. Il titolo provvisorio (letto ora, piuttosto profetico) è Blues per la fine del mondo; è stato acquisito per diventare, insieme a Nel fuoco si fanno gli uomini e al secondo capitolo del trittico, una trilogia in audiolibro.
   
   La strategia dei semplici post in diretta, scelta per raccontare il momento, è superata. Probabilmente c’è bisogno di qualcosa di più strutturato e profondo. Siamo in mezzo a un cambiamento epocale, che passa anche dagli anni di pandemia, e che ridisegnerà confini, culture, e le nostre psicologie individuali.
   Perciò, quanto a Ucraina o Covid, questo sarà l’ultimo intervento sotto forma di post, e, siccome guerra e pandemia sono diventate facce della medesima medaglia, chiuderà con-temporaneamente À la guerre comme à la guerre e
Il buco, lo spazio di riflessione aperto sugli anni virali, al quale i lettori hanno partecipato con messaggi via mail e commenti.

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