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18/7/2018

RIMOZIONE #2, LA FACCIA DI CARTA DELLA PERIFERIA (SECONDA PARTE)

 

Segue dalla prima parte.

 

Negli ultimi 6-7 anni Milano ha visto calare a forza sul proprio volto la maschera ultramodernista. Vale a dire con le più recenti giunte comunali: Pisapia (2011-2016) e Sala (2016-). Paradossalmente, due governi di centro-sinistra.

   A me sembra che il processo – già in atto, per carità – abbia avuto una notevole accelerazione dopo il primo anno della giunta Pisapia, quando, riprendendo quanto ho sentito dire a un amico, la promessa primavera arancione è diventata un tardo autunno.

   Da quel momento, pur a fianco di alcune limitate operazioni riuscite sulle periferie, una certa narrazione della città ha preso piede. Gli eventi economico-mondani si sono moltiplicati. Così come gli anglismi gaudenti utilizzati per sponsorizzarli. Spesso le stesse parole d’ordine sono finite nella propaganda politica e, più grave, nell’azione politica.

   L’Expo del 2015 e i mantra renziani hanno fatto il resto.

   Riprendendolo dalla prima parte: lo scopo nazionale e ultimo di tale visione da tenere a mente è: MILANO DEVE SCINTILLARE PERCHÉ TUTTO IL RESTO POSSA TRANQUILLAMENTE MARCIRE.

 

   Due decenni abbondanti di sindaci di centro-destra non avevano portato a tanto. Ma il paradosso di un centro-sinistra che si perde per strada le periferie e chi ci abita – sia come legame politico che come linguaggio – non è un paradosso.

   Ricordo una scena vista pochi anni fa.

   Sono in un ristorante senza pretese a pranzare da solo. (Bisogna tener conto che vado molto di rado fuori a mangiare perché cucino be-nis-si-mo, così come benissimo sto nel mio guscio, e i ristoranti sono fuori dal guscio per definizione.) Entrano tre persone e si siedono al tavolo a fianco. Un uomo e due donne. L’uomo, in giacca e cravatta, ha la zazzera grigia e un sorriso di zinco. Le donne – una paffuta, l’altra tutta nervi – vestono due tailleur grigi e gemelli.

   Mi ci vogliono quindici secondi. Dai loro discorsi capisco che sono quadri o piccoli dirigenti cittadini del Partito Democratico.

   «Ma guarda che quello non capisce un cazzo.»

   «Oh, l’hai visto il comunicato stampa?»

   «Assurdo.»

   «Tre volte. Gliel’ho dovuto dettare tre volte.»

   «Sì, buona la terza.»

   «Ma poi in Direzione?»

   «Ma per quella storia di…»

   «Eh.»

   «Lascia stare.»

   «Sì, davvero. Lascia stare.»

   «E, vabe’, ma poi in Consiglio qualcosa bisognerà pur dirgli…»

   Rallento la masticazione senza distogliere gli occhi dal piatto.

   Parlano in una lingua tecnica e al contempo sciatta. Poche battute, poche pennellate che dipingono per le mie orecchie il quadro burocratico di un partito che potrebbe avere qualsiasi inclinazione politica.

   La conversazione dei tre si fa più confidenziale. Sono piegati verso il centro della tavola, come attirati da una calamita. Le frasi diventano bisbigli. Colgo cognomi sconosciuti. Ho l’impressione che stiano parlando di soldi, o comunque di questioni economiche. Ridacchiano e sono irrequieti. Grigi e irrequieti.

   Lo zazzerone per un attimo si volta verso di me; le traiettorie delle nostre pupille s’incrociano. Sta sorridendo e sulla faccia mi sembra di scorgere un’eccitazione che definirei sessuale. Guarda altrove, punta gli altri clienti, senza che quell’eccitazione svanisca. C’è anche irrisione nei suoi occhi.

   Ho già visto quello sguardo, penso sia capitato a molti. È quello di un uomo che ha una bellissima fidanzata e la porta a spasso tenendola per mano. La tizia è poco vestita, indossa una minigonna. Le sue cosce strusciano, velate di sudore.

   Lui ti scruta. Ti ho beccato, stronzo: guardi le gambe della mia ragazza. Non è geloso. Un sorriso gli emerge sulle labbra da profondità che conducono in parte al suo cervello, in parte alle sue mutande.

   Ti irride e ne è felice.

   «Io me la scopo. Tu una figa del genere non la vedi neanche in cento vite.»

   E il piccolo dirigente del Partito Democratico così sta osservando la gente dei tavoli attorno, fra cui me.

   «Io sciaguatto nel Potere. Tu non sciaguatti in un cazzo.»

   È volgare, osceno e compiaciuto.

   Torna alle due colleghe, infilando di nuovo la capoccia in quella nebulosa inaccessibile agli altri in cui si sono chiusi, quasi i loro corpi vi si ficcassero dentro come gambe di un ragno, occultando le teste.

   Scrive Manuel Vázquez Montalbán, in un libro un po’ strano che parla di un personaggio un po’ strano:

 

«La mancanza di radici ideologiche e teoriche gli aveva permesso di crescere all’interno di quel partito nel contempo vecchio e giovane che si preparava a diventare l’alternativa di potere e necessitava di centinaia di figuri come Roldán cronometro in mano, centinaia di “orologiai” convinti che la modernità cominciava quando si sospettava della finalità, se non addirittura della stessa esistenza della classe operaia. Centinaia di manager di una politica impacchettata come di sinistra, ma che in realtà era intesa solo alla promozione personale. Senza idee, senza scrupoli, presto si sarebbero stufati di qualsiasi traccia della loro passata innocenza, affettiva e simbolica e avrebbero cambiato sarto, parrucchiere e moglie». (M.V.M., Luis Roldán né vivo né morto, 1994).

 

   I tre orologiai l’inesistenza della classe operaia ormai la postulano. È la base stessa della loro modernità e, in senso assoluto, della loro vita. Lo dicono il tono della voce e le smorfie, mentre parlano di politica parlando di soldi. Lo dicono, lombrosianamente, le loro facce.

   Non sanno cos’è, la classe operaia. Ignorano cosa ci sia un po’ più sotto e un po’ più sopra. Non sanno dove sia geograficamente collocata in città. I quartieri esterni ai loro occhi sono avvolti da una nebbia nera.

   Sono ex-catecumeni, ora piccoli sacerdoti, di una religione che odio. Lo zelo inconsapevole non sminuisce le responsabilità. Sono ingranaggi minuscoli, forse nemmeno necessari, di un corpo che contribuisce con la sua assenza dai recessi più marginali della città, con la sua mentalità politicamente neutra, provincialmente internazionale e biecamente utilitaristica, a legittimare sul piano ideologico i grattacieli di Porta Nuova che mi stanno sul cazzo, e tutto quello che rappresentano. Nonché la coltre di silenzio piombata su quella che ormai non deve più essere una Milano convenzionale. Cioè la Milano dove sono nato e che preferisco, e dove un po’ di classe operaia, o quel che ne rimane, ci abita davvero.

   Una città che ormai per loro è un cadavere. Da occultare. Perché la convenzione è diventata un’altra.

   Loro, gli orologiai, sono saltati sul treno e ora mostrano il medio dai finestrini a noialtri in banchina.

   Mi arrabbio e va a finire che pago e me ne vado. Ma lo avrei fatto comunque, in fin di conti.

   Eppure la periferia, a Milano, c’è. Ci vivono individui e comunità. È una dimensione mentale e fisica.

   Potrebbe essere raccontata tramite la letteratura.

   Ma.

   Il cortocircuito è il seguente: quasi mai chi scrive libri ambientati nelle periferie milanesi ci abita davvero. (Parlo di libri pubblicati da grandi case editrici che hanno, o possono avere, un’ampia diffusione.)

   Non è una colpa personale. È semplicemente una circostanza che ha effetti sul contenuto tematico e morale dei libri.

   Spesso mi è capitato di leggere della Milano degli ultimi, definizione cattolicheggiante che non mi interessa. Spesso i personaggi che vivono in periferia sono necessariamente buoni. Spesso lo scrittore, benestante, lava la propria coscienza assegnando a tali personaggi caratteristiche positive, perché il povero ha i buoni sentimenti che a lui mancano. Conosce la solidarietà. È immune all’individualismo. Magari è straniero. Vive la vita vera, non quella sterilizzata e triste del ricco (e italiano). Sì, vuole realizzarsi, ma sempre senza dimenticarsi gli altri, i compagni di viaggio dei bassifondi. Sì, si piegherà ai meccanismi narrativi, ma lo farà per impartire la lezione morale al pubblico borghese dello scrittore borghese.

   Questa è una visione falsa sulla quale sputare sopra.

   Spesso in periferia, almeno in quella che conosco, la solidarietà non esiste. C’è un individualismo sfrenato. C’è un sottoproletariato criminale che tira a campare senza la poesia che lo scrittore borghese vorrebbe attribuirgli. Pochissimi contatti coi vicini. Un senso di insicurezza esistenziale che obbliga a pararsi il culo e a fottere il prossimo se è necessario, ma anche se non è necessario.

   Vite e generazioni che si accartocciano su sé stesse. Seguono il respiro dell’abiezione.

   Oppure no, perché lo stereotipo non è la verità d’obbligo.

   Si spaccia. Ci si droga. Si va al mercato del martedì. Si molestano i bambini. Si portano i bambini a scuola. Ci si innamora. Si scopa. Si mangia. Si parla o non si parla con gli altri. Ci si fa affossare dalla propria ignoranza. Si studia. Non si segue la politica. Si segue un pochino la politica. Si fuma. Si odiano i negri. Si sposa un ragazzo marocchino. Si lavora. Non si lavora. Si beve troppo. Si gioca al videopoker. Non si hanno i soldi per giocare al videopoker.

 

   Semplificare in didascalie, nascondere questa complessità, relegare la periferia e chi ci abita in un quadretto moralizzato e moralizzatore ad uso e consumo della borghesia media o piccola è sbagliato. È sbagliato renderla accettabile, fruibile.

   Deproblematizzare è tradire. Significa non opporsi al flusso omologante dell’Ultramoderno in salsa milanese ed essere amici degli orologiai. In una parola: complicità.

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