top of page

3/12/2016

(FOTO)REPORTAGE: DENTRO LA GENERAL ELECTRIC OCCUPATA. DI STATORI, CORPORATIONS E ANIMISMO

 

Mi ero ripromesso, e avevo promesso, di raccontare lotta dei lavoratori della General Electric, ex-Alstom Power, perché secondo me ha un valore che va al di là della semplice vicenda in sé. Così, qualche giorno fa, sono stato al presidio di via Edison, a Sesto San Giovanni. Ma procediamo con ordine.

   Confesso che non sapevo cosa fosse uno statore. I generatori delle centrali elettriche funzionano come le dinamo delle biciclette. C’è una parte esterna, lo statore appunto, una specie di cilindrone cavo di acciaio. All’interno lo statore è rivestito di due strati di barre statoriche, infilati  in apposite scanalature, dette cave; le barre statoriche vengono biettate, ovvero fissate, contro il ventre dello statore da una squadra di 4/5 operai per turno. Seguono il montaggio degli anelli interni di bloccaggio testate, la polimerizzazione nelle legature e nei cuscini resinati, e il successivo raffreddamento. Poi, dopo altre operazioni,  il rotore, ovvero un altro grande cilindro d’acciaio dotato di poli magnetici, viene inserito all’interno dello statore. Ruotando nello statore, il rotore produce nell’intraferro un flusso magnetico alternato che crea energia. Il sistema di smistamento la porta nelle nostre case ed è per quello che quando premiamo l’interruttore la lampadina si accende. Questi generatori possono essere di varie dimensioni, dalle 21 alle 315 tonnellate di peso, dai due metri scarsi ai sette, e anche più.

   In Italia le fabbriche che possono produrre questi mostri sono solo tre: l’Ansaldo di Genova, la Franco Tosi di Legnano e la General Electric di Sesto San Giovanni.

   Quest’ultimo stabilimento – la vecchia e gloriosa Ercole Marelli, di fatto – è diventato soltanto nel novembre del 2015 proprietà di General Electric, che lo ha acquistato dalla multinazionale francese Alstom Power, cui è andato tutto il settore ferroviario della GE. In pratica i due colossi si sono scambiati i rami produttivi: energia in cambio di ferrovie.

   I lavoratori della fabbrica sestese sono stati convocati uno a uno dalla nuova direzione. A ciascuno sono stati dati un cappellino e una polo.  A ciascuno è stato detto di non preoccuparsi: «Non cambierà nulla». E invece solo due mesi dopo, nel gennaio del 2016, General Electric ha annunciato un piano di 6500 licenziamenti in tutta Europa, di cui 236 proprio a Sesto. I termini della questione sono diventati presto chiari: 140 esuberi nel 2016, 96 nel 2017. Tre lavoratori hanno accettato di essere ricollocati in altre fabbriche del gruppo, lontano da casa. Ottantacinque hanno messo in tasca le 18 mensilità di incentivo e se ne sono andati. Tutti gli altri hanno deciso di resistere.

   Dal 27 settembre sono in assemblea permanente e hanno occupato lo stabilimento. Uno sguardo alla facce permette di fare un piccolo giro del mondo. Ci sono italiani – e molti sono sestesi – marocchini, egiziani, moldavi, cinesi, bengalesi, mauritani. Dicono che gli affari andavano alla grande, che la fabbrica produceva e produceva bene. Macchinari di pregio per clienti da tutto il mondo. Dicono che non c’è una ragione per chiudere l’officina. A quanto pare però la direzione della GE una ragione l’ha trovata. Vuole tenersi i macchinari e trasferire la produzione in Polonia. Una perdita dal punto di vista della qualità del prodotto, un risparmio sul monte salari.

   General Electric è la multinazionale. Una multinazionale enorme, così enorme da sembrare uno stereotipo, quasi irreale. Il fatturato previsto per il 2016 ammonta a 126 miliardi di dollari. Numeri da Stato nazionale. Ovviamente non mancano gli scandali. Durante le primarie democratiche Bernie Sanders ha più volte additato General Electric come il peggiore tra i colossi americani in fatto di evasione fiscale. Nel quinquennio 2008-2013 GE non ha versato un dollaro di imposte negli Stati Uniti, anzi ha ricevuto quasi 3 miliardi di rimborsi fiscali. Solo nel 2012 GE sarebbe riuscita ad occultare ben 108 miliardi di ricavi nei paradisi fiscali, tra palme e cocktail con l’oliva. Il fondo pensionistico privato dell’amministratore delegato Jeffrey R. Immelt, un sessantenne di Cincinnati, ammonterebbe a circa 59 milioni di dollari. Immelt tiene le redini del colosso dal 2001. Durante gli anni della crisi finanziaria, mentre era contemporaneamente direttore della Federal Reserve newyorkese, ha fatto sì che General Electric potesse usufruire di aiuti finanziari pari a 16 miliardi di dollari da parte della Fed stessa. Alcuni osservatori d’oltreoceano ritengono che Immelt nel 2012-2013 abbia finanziato la Clinton Foundation, ricevendo in cambio le pressioni di Hillary Clinton, allora Segretario di Stato, sul governo algerino per convincerlo ad acquistare da GE una partita di turbine. Acquisto poi andato a buon fine. Valore: 1,9 miliardi di dollari.

 

   Nelle ultime settimane i lavoratori della GE di Sesto si sono dati da fare. Tengono in piedi il presidio, e non è cosa facile. Incontrano delegazioni politiche. Cercano di spiegare le proprie ragioni. Dicono: General Electric ha preso 600 milioni di soldi pubblici per rilanciare progetti di sviluppo in Italia, e a noi ci chiude. In effetti GE recentemente ha incassato cospicui finanziamenti governativi, e regionali, nello specifico da Piemonte, Campania, Puglia, Toscana e Lombardia. I sei milioni di Regione Lombardia non hanno fatto molta strada: poche decine di metri dal palazzo della Regione alla sede amministrativa milanese di GE, in via Melchiorre Gioia. Per ora sono stati utilizzati solo per costruire una palestra nel sito di Talamone, vicino a Sondrio. Vogliono i dipendenti in forma, scherza qualcuno.

   Gli operai hanno fatto vari cortei, ultimamente. Palazzo della Regione, sede di GE, Prefettura, Palazzo Marino. Hanno marciato con gli studenti. Hanno solidarizzato coi lavoratori della Roberto Cavalli in sciopero, settore moda. Elmetti da lavoro e mutande leopardate. Hanno ingoiato la proposta della direzione, che anche al Ministero dello Sviluppo Economico ritengono una provocazione: non vi licenziamo, ma dovete accettare il trasferimento. Dove? Puglia o Campania.

   Il 10 ottobre sono stati fuori dalla Fiera. Dentro: l’assemblea annuale della Confindustria, con Renzi e Sala ad assistere. Lo slogan: «Far volare Milano». Retorica neo-Expo. «Una delle aree più vibranti a livello europeo». «Ho sempre visto in questa città il punto di riferimento avanzato per chi vuole investire sul futuro». I lavoratori davanti ai padiglioni, con lo striscione: «General Electric prende soldi pubblici e licenzia».

   Quel giorno è passato di lì anche Bruno Pizzul in bicicletta. Gli operai l’hanno fermato: «Grande Bruno!». Hanno raccontato la loro storia, Pizzul ha espresso la sua solidarietà, si è fermato un po’ e poi ha inforcato la bici. Una funzionaria del sindacato ha chiesto: «Ma chi era?». È stata sommersa di occhiatacce bonarie. Stiamo parlando dell’Immenso Bruno, patrimonio culturale italiano vivente!

   Il 27 ottobre in via Melchiorre Gioia la dirigenza ha organizzato un party per celebrare l’anniversario dell’acquisizione del ramo energia di Alstom Power. È stata organizzata una all-employees broadcast, una videoconferenza con i dipendenti di Baden e Greenville per parlare dei «traguardi di questo primo anno» e dei «nostri piani per il futuro». A Sesto l’hanno letta come, con rispetto parlando, una presa per il culo.

   I giorni passano e l’occupazione della fabbrica procede, tra la solidarietà dei colleghi della GE in tutta Italia e l’interesse intermittente dei media.

   Io sono stato alla General Electric la mattina del 1° dicembre.

 

   Sono le 10,30 del mattino. Ho appuntamento col segretario della FIOM di Milano alla fermata di Sesto Marelli, metropolitana rossa. Nei 200 metri che separano la metropolitana dalla fabbrica, non so come, finiamo a parlare dell’animismo. Concordiamo entrambi sul fatto che l’animismo, quando vira verso la stregoneria, diventa una cazzata, ma il principio di fondo è sostanzialmente giusto. Il pensiero occidentale porta a considerare l’uomo in maniera molto egocentrica, esiste solo un Io che concepisce se stesso in maniera quasi esclusiva, mentre invece le nostre vite hanno continuamente a che fare con gli altri esseri. Uomini, animali, cose. Da soli non siamo nulla. Osmosi e interazione.

   Davanti all’ingresso della fabbrica, di fianco alla guardina, c’è una decina di operai. Si sono sistemati su delle sedie da ufficio, di quelle girevoli e imbottite. Dopo le presentazioni uno lancia uno sguardo verso il gabbiotto del guardiano. «Guardano tutto. Segnano quelli che entrano». «Ieri è venuta la Rai a fare un servizio,» fa un altro. «Dovrebbe andare in onda stasera.»

   Continuiamo verso lo stabilimento. La fabbrica è immensa. L’officina principale, l’unica accessibile oggi, ha l’estensione di un campo da calcio. Tra il pavimento e il soffitto vetrato ci sono quaranta metri.

   Gli operai hanno ricavato una sorta di mini-appartamento in un angolo del fabbricato. Le pareti sono fatte di teli di plastica, per isolare dal freddo. Niente riscaldamento. Siccome si fermano qui anche di notte, in qualche modo devono proteggersi dal gelo. Un doppio strato di plastica crea un intercapedine in corrispondenza dell’ingresso, per evitare spifferi. Dentro ci sono amache e brandine improvvisate, un tavolo, degli scaffali e dei fornelli elettrici. Pacchi di pasta, latte di legumi, passata di pomodoro.

   Qualcuno gironzola, qualcuno si fa un caffè. Si sono organizzati secondo i vecchi turni, come se stessero ancora lavorando. 6-14, 14-22, 22-6. Niente lavoro = presidio a ciclo continuo.

   Sembra quasi che siano figli a fianco del letto d’ospedale del padre. Aspettano che si risvegli. Non mi sembra un fatto di coraggio, né di disperazione, a dire il vero. Piuttosto un misto di dignità e determinazione. Non so dire in quali percentuali.

   Comincia la visita guidata. Lo spazio è suddiviso in diverse aree produttive. In una sorta di camera fatta di vetro c’è un rotore ancora da finire, un maccherone d’acciaio da sei metri. «Questo doveva andare in Libano,» mi dicono. «Qui potremmo ricominciare a produrre domani mattina, se solo ci fosse la volontà dell’azienda». Solo che General Electric la volontà non ce l’ha, ha già messo nel mirino la Polonia. E General Electric dispone di soldi e quindi di tempo, può permettersi di aspettare che i lavoratori si stanchino e lascino la fabbrica.

   «Qui non ce ne andiamo, se no si prendono i macchinari. All’inizio non volevano farci entrare. Fuori dalla fabbrica c’erano dei culturisti fascistoidi, prezzolati ovviamente. Poi siccome erano armati di manganelli la polizia li ha fatti sloggiare.»

   La fabbrica sembra una bestia che dorme. Vederla così, vuota e immobile, fa pena a me; a loro che ci lavorano deve fare male.

   In alto vedo un gigantesco carroponte, con la cabina di comando. I binari di guida scorrono lungo entrambi i lati lunghi del capannone. Più avanti, davanti alla stanza del rotore, un tornio lungo venti metri, e più oltre ancora una fresa verticale della INNSE che sembra un palazzo.

   Provano a spiegarmi come funziona la produzione, ma io di queste cose tecniche non ci ho mai capito un cazzo. Sento tanti nomi: anelli ventilatori, semigiunti, barre, cappe. Tutti questi pezzi sono messi in buon ordine nella parte centrale, pronti per essere montati. «Solo questa vale 60.000 euro,» mi dice un addetto al controllo qualità accarezzando una cappa. «Non te lo dico per fare il figo, ma noi qui siamo veramente bravi,» continua. «Io sono stato in Germania. A noi ci mandavano in giro per l’Europa a fare consulenza. In Germania lavorano col culo. Ho portato le mie conoscenze in giro, e adesso perdo il lavoro a casa mia».

   Ho l’impressione che tutti qui in effetti conoscano molto bene il proprio mestiere e lo amino. Peraltro è un mestiere che in Italia sanno fare in pochi. Quella che si dice un’eccellenza italiana.

   Le casse che contengono piccoli pezzi da aggiungere ai componenti del generatore sono impilate una sull’altra e aspettano contro i muri laterali, come se da un momento all’altro dovesse arrivare un generale che passa in rassegna le truppe. Questo è un lavoro artigianale fatto con metodi industriali, non c’è nulla di automatizzato: contano davvero le competenze dei singoli lavoratori.

   Agli attaccapanni ci sono ancora camici e caschetti appesi. Sui caschi ci sono i nomi scritti a pennarello.

   Nella camera di collaudo non si può entrare. «Lì c’è un portellone spesso cinque metri. Entrare è pericolosissimo.»

   Mentre proseguiamo la visita, il segretario generale riceve una telefonata. È il giornalista della Rai, quello che è venuto ieri. La General Electric è venuta a sapere della loro visita e ha fatto domande, molte domande. Quella sera, poi, la messa in onda del servizio salterà.

   Prendo un caffè alla macchinetta, che ovviamente mi frega i 15 centesimi di resto. Scambio quattro chiacchiere con un delegato e un paio di lavoratori. Mi dicono che alla General Electric il più vecchio ha 53 anni e il più giovane 29. Professionalmente sono cresciuti insieme, sono un gruppo coeso. L’età media è circa quarant’anni. Età da figli alle elementari-medie. Neanche a farlo apposta tutti i delegati sindacali hanno due figli ciascuno.

   Resto solo con l’unica operaia della fabbrica. Mi dice che il presidio è una cosa sfibrante. Lei si sta abituando solo adesso. Il presidio ti entra dentro. Diventa l’unico pensiero e schiaccia il resto della tua vita. Lei ha sempre fatto volontariato. All’inizio del presidio ha smesso, non riusciva a fare altro. Solo adesso sta ricominciando, perché vuole riprendersi i suoi spazi di normalità.

   Il lavoro le piace e le manca. Sì, è pesante, perché stare otto ore nella pancia dello statore ad avvitare le chiavette delle barre e faticoso, però lei ha cominciato dall’attrezzeria, i reparti se li è girati tutti e l’ultimo dov’era finita, quello dell’avvolgimento, le piaceva proprio. «Ancora non ci credo che vogliono chiudere. Io, guarda, non ci voglio credere».

   Esco a fumare una sigaretta. Sono nel periodo di mezzo, quello in cui cerco di ridurre il fumo in vista del momento in cui smetterò per davvero. Fuori c’è un altro delegato insieme ad una collega impiegata. Hanno partecipato entrambi al laboratorio di scrittura collettiva di Meccanoscritto, quello che abbiamo organizzato con Wu Ming 2. Parliamo un po’ di come si lavora in fabbrica e di come i modi di produzione influenzano la socialità. Lavorare fianco a fianco dei colleghi crea un legame particolare, una consapevolezza, una solidarietà uniche. Tutto ciò influenza la maniera di farsi valere, la lotta. Come quella che stanno facendo qui. Basta guardarla, la fabbrica. È uno spazio enorme, aperto; è sufficiente volgere lo sguardo per vedere in fondo. Fallo otto ore al giorno e ti cambierà la testa. Negli uffici, quelli della GE o di qualsiasi altra azienda, gli spazi sono parcellizzati da divisori in compensato e ognuno sta sul suo computer. Fallo otto ore al giorno e ti cambierà la testa.

   Mi viene da ripensare al dialogo col segretario provinciale sull’animismo riletto in chiave politica. Viviamo in connessione con gli altri; anche volendo, non possiamo farne a meno. Questa lotta, la lotta dei lavoratori della General Electric, mi sembra a livello simbolico l’antitesi della direzione sbagliata che sta prendendo il mondo. Il contrario del pensare che non sia possibile modificare l’esistente e che l’unica cosa che resta da fare è ritagliarsi uno spazio per sé tra le pareti di compensato.

bottom of page