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13/11/2019
PARIS, 13 NOVEMBRE 2015

La prossimità con eventi storici affila la memoria personale.  Ti ricorda dov'eri. Segna il tempo e la storia. Impedisce l’errore e distorce le percezioni.
La notte del 13/11/2015 ero in viaggio per la Francia.
Quattro anni fa.

La notte del Bataclan stavo attraversando il confine italo-francese in autobus.
   Era mezzanotte. Le notizie degli attacchi di Parigi erano trapelate dagli schermi degli smartphone dei passeggeri. Attentato/Teatro/Saint Denis. Una nebulosa di luoghi e circostanze labili.
   Il pullman sfilò indisturbato fra le garitte della polizia di frontiera. Nei giorni successivi dissero che il Ministère de l'Intérieur aveva sigillato le frontiere subito dopo gli attentati. Cazzate.
   Ricordo l’esaltazione. Quella sensazione diffusa fra i sedili. Quando qualcosa di terribile e indefinito è al contempo sufficientemente vicino e sufficientemente lontano da diventare eccitante.
   Gli stavamo andando incontro.


   Vedevo scorrere l’oscurità ai finestrini. I tetti spioventi d’ardesia. La grande spianata francese. La notte si cicatrizzava sui capannoni industriali che costeggiavano l’autostrada.
   Proseguivamo verso nord. Qualcuno si era addormentato. Io non sono capace di dormire in viaggio. La connessione internet non funzionava. Le informazioni singhiozzavano. Circolavano fantasticherie su quello che stava succedendo a Parigi.
   Novanta orari. Il controcanto delle fantasticherie era solo il nero della notte oltre il guardrail. Una rappresentazione estetica e inquietante dei nostri pensieri.


   Il pullman puntava su Parigi, come previsto. Per ficcarsi nell'Incubo.

   Io no, scendevo alla prima fermata. Ero diretto a Digione, in Borgogna. Parigi in fiamme, e io passavo la mano. La presi per una distrazione di responsabilità di cui non ero responsabile.
   L’enorme stabilimento marrone della Chocolaterie de Bourgogne era un fantasma d’acciaio. La corona di fabbriche e hangar annunciò la città.
   Avevo sbagliato la giacca, lo capii appena sceso. C’era un’aria di gelatina, gelida e umida. Guardavo le vecchie case con gli abbaini che si affacciavano sul piazzale. Il boulevard puntava verso Darcy. Erano le cinque del mattino e non c’era anima viva.
   Poi un viaggio confuso. La macchina. Il calore. L’architettura che cambiava, le vie che alternavano le belle case antiche ai grigi abituri in cartongesso. L’edilizia spazzatura di colori sgargianti. Il letto ad altezza pavimento. La coperta.


   Il giorno dopo comprai Libération. All’epoca parlavo francese ancora male. Mi figurai il contesto, persi i dettagli.
   Mi colpì la compostezza per le strade. Non seppi se attribuirla allo shock, o al fatto che il Resto della Francia considera Parigi un’Altra Francia. O a una rassegnazione fatalistica che ritenevo orribile.
   Ancora non l’ho capito.


   In un passaggio, credo, dei Discorsi, Machiavelli scrive che i popoli non si ribellano alle offese più gravi, perché l’offesa ha tolto loro la forza. Forse è qualcosa del genere.
   C’era la rivendicazione. Ma c’erano i dubbi. Le ricostruzioni saltavano pezzi. C’era il Caos.
   Quel terrore indefinito era difficile da inquadrare. Da intellettualizzare. Così la paura si sostanziava in una dimensione primitiva. Diventava un orrore che si accetta, così come si accettano le catastrofi naturali. Terremoti, tifoni, esondazioni.
   Tutto andò oltre. Oltre il terrorismo. Oltre, forse, quella che poteva apparire come una nuova strategia della tensione su scala europea.

   Fu una regressione psicologica collettiva basata sul panico. Milioni di individui senza riferimenti che fluttuano. E che, come tutte le cose che fluttuano, possono essere indirizzati.
   È un’idea che mi terrorizzava allora, e che mi terrorizza ora.
   Ha a che fare con quello che sto scrivendo negli ultimi mesi. Ed è cominciata il 13 novembre 2015.

 

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