Ivan Brentari
1/6/2019
LE PAROLE
Ogni scrittore sviluppa un rapporto fisico con le parole. Raccontare storie attraverso l’accostamento di vocaboli obbliga contemporaneamente alla visione d’insieme e allo sguardo ravvicinato.
Le parole si compongono di lettere, pieghe, estroflessioni, bombature, linee. La ricerca del termine giusto diventa un viaggio non solo nel significato che si vuole esprimere, ma anche nella forma grafica, o nel suono.
La parola, quando viene scritta, quando con altre parole forma una frase, genera spazi vuoti; porzioni di righe bianche sulla pagina.
È anche l’utilizzo dei vuoti – o il non utilizzo – a definire il ritmo della narrazione. Simbolicamente il codice binario pieno-vuoto costituisce l’essenza della scrittura.
Sei vicino. Senti l’odore delle parole. Le fiuti, le stani.
Ovviamente le parole devono raccontare una storia complessa. Esprimere personaggi, sentimenti, vicende. Questo implica la necessità di uno sguardo a volo d’uccello.
Guardi il libro, la storia. Sai che quel personaggio cambierà. O che dovrà morire. O che incontrerà un altro personaggio.
Sei alto. Sei lontano.
L’alternanza fra l’approccio microscopico alla parola singola e quello in altura alla storia è forse una delle difficoltà maggiori per uno scrittore. Sono due procedimenti opposti che devono armonizzarsi. È come accendere e spegnere in continuazione una lampadina. Col rischio di fulminarla.
Ci sono scrittori che si avvicinano troppo alla parola. S’innamorano dello stile e non riescono più a riprendere quota, a sorvolare la storia, a conoscerla. Così, alla fine, non raccontano più niente.
A volte peggio: l’essenza della parola li attira come una sirena e li fa schiantare sugli scogli.
Si perdono fra le pieghe delle lettere. Si avvicinano così tanto che i segni vanno fuori fuoco. Le parole si sgretolano. La storia si sgretola. Gli scrittori stessi si sgretolano, se non hanno una personalità forte.
Alcuni impazziscono.
Le parole non parlano più. Stanno lì, li guardano. Si accalcano. Li circondano. Diventano un’ossessione.
Non ci sono maniere di scrivere che hanno più dignità di altre. Io di norma preferisco restare ancorato alle storie più che alle parole solo perché mi sembra produttivo e perché mi mantiene sano di mente. Ma, davvero, non significa nulla.
Mi sta capitando di scrivere un libro ampio, con tanti personaggi, tante vicende, un sottotesto abbastanza complesso. Se lo scrivessi senza controllo supererebbe tranquillamente le 1000/1500 pagine e sarebbe impubblicabile.
Questo mi porta molto, e pericolosamente, vicino alle parole. Alle lettere, direi.
Sono costretto a limare ogni frase. Ad asciugare, a cancellare. Cercando però di non togliere nulla alla trama e all’impatto emotivo che voglio avere sul lettore.
Sopprimo i verbi, ad esempio. O non li coniugo. Sopprimo gli aggettivi e lascio che sia il lettore a reintegrarli tramite il contesto generale. Li liofilizzo.
Cerco anche di semplificare i termini evitando roba troppo difficile. Voglio una storia vasta e parole semplici.
A chi non scrive quotidianamente e per ore forse sembra assurdo, ma scrivere con poche e semplici parole è più difficile che scrivere con tante e ricercate. È come costruire una casa con un martello e due chiodi, invece che con le escavatrici, la malta, le spatole, e via dicendo.
Devi ridurre volontariamente il vocabolario, puntare all’essenzialità.
Sacrificherò lo stile e i personaggi alla storia. Non è una regola, non è una ricetta, non è una promessa, non è una dichiarazione d’intenti per il futuro.
È solo comunicazione e funzionalità. Ogni storia ha bisogno del suo linguaggio. Per questo libro va così.
P.S. Questo post conta 557 parole.