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13/12/2022

ALCUNI DANZANO PER RICORDARE (QUARTA PARTE) segue dalla TERZA PARTE

 

Disse che il partito può distruggerti. Che la politica ha il potere di annientare un uomo, anche a distanza di anni.

   In pratica, le prime parole che gli sentii pronunciare.

   Strano. I vecchi comunisti non si sbottonano. Automatismi della clandestinità. Parli quando sai chi hai davanti.

   Calai le carte. Pino mise sul piatto quasi un secolo. Venimmo a vedere i rispettivi giochi. Avevamo entrambi da perdere e da guadagnare.

   Quando incontrai Pino per la prima volta, credetti di averlo trovato in un periodo di ripensamento della propria vita politica, e che questo lo avrebbe spinto a rivelarmi cose che aveva tenuto in serbo per decenni, e, per un giovane storico, sarebbe stata una fortuna.

   Avevo ragione a metà. Era una manifestazione di quello spirito onesto ma guardingo, tipico di Pino, che avrei conosciuto col tempo. Ciò che faceva di lui quel che era.

   Cioè, essenzialmente, un’anomalia del sistema.

   Quindi ricordo l’azzurro. Il colore della giacca imbottita. Immagino fosse l’inverno 1988-1989. Il Governo De Mita. Andreotti agli Esteri. Sergio Mattarella ministro per i rapporti col Parlamento.

   Percepisco l’ingombro di quella giacca. Il baricentro è ondivago. Il primo ricordo della mia vita sono io che attraverso via dei Cinquecento (martiri di Dogali).

   Qui, nel 1970, la polizia fermò una macchina: a bordo c’erano Tanino Fidanzati, mafioso di punta a Milano, con i boss Salvatore Greco, Tommaso Buscetta, Gaetano Badalamenti, Gerlando Alberti e Giuseppe Calderone. Nel febbraio del 1933 Ulrich von Hassel, ambasciatore tedesco, era qui a visitare l’Albergo per gli sfrattati, che credo si sia trasformato col tempo nella casa di riposo per coniugi. Pochi anni dopo a questo incrocio sfilerà Pino Sacchi in sella alla sua bicicletta: l’unica vittoria in una corsa ufficiale.

   Percepisco l’ingombro di quella giacca. Le gambe si muovono a scatti. Cammino a passi veloci, come i vecchi. La visuale mi offre ginocchia. So di essere l’attrazione per un gruppo di adulti, parenti e amici giunti ad ammirare la novità. Ci sono anche i miei genitori. So che tutti si stupiranno delle mie gesta.

   C’erano le case popolari e lotti di terreno ancora non edificato. I palazzi si alternavano a prati incolti. Oggi i buchi sono stati riempiti, Milano lo richiedeva. Più in là si stagliavano i torrioni di via San Dionigi. Un commentatore, in televisione, li definì “estetica sovietica”; se ne servì come contrappunto per esaltare l’eleganza romanica dell’Abbazia di Chiaravalle, che si trova un paio di chilometri più fuori, in mezzo ai campi.

   Cammino oggi, qui. Il lumpenproletariat cambia tonalità. Lo spaccio è passato di mano. Le case popolari ne restano il centro. I nordafricani hanno diversificato, una volta si trovava solo eroina, oggi no, oggi l’offerta è ampia, e continuo a considerare queste strade casa mia.

   Tutti le indicano col nome di “Corvetto”. Si chiamerebbe Quartiere Mazzini. Si chiamava Quartiere Regina Elena. Prima ancora questo acquitrino edificabile veniva definito la “Gamboloita”.

   La prima pietra delle case popolari fu posata nel 1925. Elena del Montenegro venne a benedire e con ogni probabilità le sfuggì l’ironia: un quartiere per diseredati portava il nome di una regina.

   Eravamo qui. Siamo sempre stati qui. Siamo sempre qui.

   Milano negli anni Venti pompava modernità. Mangiava figli altrui. Le fabbriche macinavano corpi forniti dalla campagna. Fu così per la famiglia di Pino.

   Il fascismo cercava una vetrina. Il conto lo pagavano i poveracci.

   Era una città di sfollati, gli alloggi scarseggiavano. Nel ’27 fu istituito il Casellario Ecografico del Subaffitto. Le famiglie si ammassavano in via Parini e all’ex-tubercolosario di via San Vittore. Abituri di bandone e legno sorgevano al limitare della città, veri e propri villaggi nel fango che brulicavano di bambini seminudi. Immigrati meridionali improvvisavano officine per stagnare le pentole. Artisti di strada piantavano tende. Le puttane mandavano i figli fuori a giocare per poter lavorare.

   Nel giugno 1928 un ratto divorò il volto di un neonato nella baraccopoli di via Sismondi, all’angolo con via Lomellina. Il padre si chiamava Antonio Porelli, veniva dalla provincia di Frosinone, era un suonatore ambulante. Trovarono il bambino la mattina, l’occhio penzolava sull’imbottitura di stracci.

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   Quindi la regina inaugurò il quartiere nel 1925, lì dove c’era solo campagna. Quindi le case vennero su dai prati come querce di mattoni. Quindi furono i cantieri a stabilire la viabilità.

   Via Polesine, via Mompiani, piazzale Ferrara, via Pomposa, via Ravenna, via dei Cinquecento (sempre martiri di Dogali), via dei Panigarola, piazzale Gabrio Rosa.

   Il mio nonno paterno ottenne l’alloggio nel 1939, emigrato dalla Val di Non con madre e fratelli. Pino Sacchi venne ad abitarci con Assunta nel 1944, fresco di matrimonio e sopravvissuto all’affondamento di una corazzata.

   Le fabbriche assorbivano gli abitanti delle case popolari come spugne. C’era sempre una percentuale di affittuari che campava di espedienti e criminalità.

   Eravamo classe operaia. Eravamo ladri. Eravamo comunisti in sonno. Eravamo gentaglia con nebbiose simpatie per il duce.

   Eravamo qui. Siamo sempre stati qui. Siamo sempre qui.

   Il fascismo si inculò gli operai. Era nato per quello. Era stato nutrito dalla borghesia perché portasse a termine il compito.

   Gli operai presero botte e seppellirono i loro morti. La politica deflazionistica si pappò il salario nel 1927: meno 10% in primavera, ancora meno 10% a novembre. Il fascismo risarciva i padroni per aver accettato Quota 90, che disincentivava i finanziamenti esteri. Via i minimi contrattuali, su il cottimo. Via gli operai anziani coi salari alti, dentro donne e giovani sottopagati. Sesto San Giovanni: accumulatori elettrici, lavorazioni a base di acidi e piombo, le operaie prendevano o,76 lire l’ora. Sbirri nelle fabbriche e spioni del PNF. La Prima Zona OVRA nacque a Milano per perseguitare il sovversivismo comunista.

   Cammino oggi lungo corso Lodi. Si chiamava corso XXVIII Ottobre. Lo Scalo Romana era una centrale elettrica. Bevo i caffè nei bar dei cinesi e potrei incrociare delle conoscenze, ma non succede.

   Mi sono ubriacato qui, un paio di volte, in un posto che non c’è più. L’alcol scaccia il freddo, lo rende una sensazione posticipata, una promessa appoggiata sulla pelle. Lì una bellissima ragazza turca accettò di baciarmi, in una nebulosa viola.

   Lo Scalo Romana diventerà Villaggio Olimpico nel 2026. La mareggiata olimpica si ritirerà, resterà l’ennesima area pastorizzata e svuotata di spirito.

   Dove c’è la Fondazione Prada c’erano le puttane più anziane di Milano. Flash dalla macchina: tette pendule, attorcigliate come trecce di mozzarella.

   La trattoria intitolata a Luciano Tajoli accoglieva popolani. Ora ha cambiato gestione e prezzi e accoglie fighetti e finocchi e modelle. È andata così, non facciamone una questione di principio, ci sono in ballo l’evoluzione storica e mutazioni di lungo periodo.

   Pino passò in piazzale Lodi in bicicletta, una pistola addosso. I militi lo perquisirono senza trovargliela. Cominciò a tremare solo mentre scalava il ponte che esce verso viale Brenta. Mandò i compagni a casa e annullò la missione. Lo raccontò a me, nella sua casa di via Pezzotti, dietro a quella che era stata la fabbrica della OM, fu Miani e Silvestri, il 26 settembre 2014.

   Persistiamo nella toponomastica e nelle fermate della metropolitana. Lodi T.I.B.B.: Tecnomasio Italiano Brown Boveri, una delle fabbriche elettromeccaniche più importanti della città. Greco Pirelli. Sesto Marelli.

   Il Tecnomasio diversificava. Piccola elettromeccanica, grandi statori. Fino al 1948 operai e impiegati mangiarono assieme, la mensa si trovava di fianco ai binari della ferrovia, dove ora c’è un laboratorio medico. La vittoria della DC alle politiche suggerì una certa segregazione.

   Corvetto e Rogoredo erano i distretti siderurgici della città. Un tragico tram li collegava. C’era la canzone: El tram de Rugured, tre ore e meza dala fogna a piasale Corvett.

   Gli operai facevano avanti e indietro. La Vanzetti e la Redaelli cagavano putrelle di zama. Riempivano di porcherie il terreno delle campagne.

   Pino finì a lavorare in via Oglio (uno dei rebbi che si diparte da piazzale Ferrara), alla Motomeccanica, dopo il 1945. I miei nonni abitavano a cento metri.

   Ci annidiamo. Siamo qui. È la nostra sconfitta, sono le nostre ferite. Ma non ce ne siamo mai andati.

   Fermi, no, non fate le merde, sono i ruggenti anni Venti. La città cambia faccia. Ma sì, giù la centrale termoelettrica di via Santa Radegonda, giù la chiesa di Santa Maria Beltrade, giù la Casa Rossa di corso Venezia, su la centrale del latte. Una nuova Stazione Centrale rimpiazza quella vecchia di piazza Fiume (oggi piazza della Repubblica). C’è il nuovo Mercato di Porta Vittoria.

   Addendum: il federale Marietto Giampaoli incassa le tangenti per i lavori; il podestà Ernesto Belloni idem; Arnaldone Mussolini becca i soldi per conto del fratello. Tutti beccano quella bella tangente dalla Dillon & Read. Un prestito al Comune a condizioni non proprio vantaggiose. Le banche americane stravedono per il fascismo.

   Pino sta lavorando da garzone. Io sono nell’iperuranio. Mio nonno titilla il naso alle vacche con delle spighe in quel di Coredo, in un clima austroungarico.

   Gli anni Venti ci pre-pastorizzano. È la città corporativa. Il centro ai ricchi, spingiamo i lavoratori ai margini, facciamogli le case, ma fuori dai coglioni. È la fotocopia dell’oggi, con camicia nera.

   È il motivo per il quale io, operaio alla catena della fabbrica editoriale (ma non appartenente alla classe operaia), a colpi di aumenti d’affitto sono naufragato al limitare della matropoli, a duecento metri dalla vecchia fabbrica Breda e il suo carroponte.

   Annuso il mio tempo. Coltivo le mie eredità. Sono conseguente, devoto e ambiguo.

   Amadio Brentari, il bisnonno/der Urgroßvater, abbandonò Smarano – frazione di Coredo dove tutti si chiamano Brentari – per andare in America agli inizi del Novecento. Si fece l’Atlantico di fianco alla sala macchine. Lavorò due anni in miniera, in Pennsylvania. Rientrò in Val di Non perché la miniera era una merda, e lo capì coi propri bronchi, prima che George Orwell scrivesse quel famoso, bello, e paraculo libro sui minatori.

   Il Titanic andò giù. Nacque Tullio, mio nonno. Da ragazzino si arrabattava come cardatore di materassi. Girava la valle e cardava. Dormiva nei fienili e la mattina spaccava con un pugno l’acqua ghiacciata degli abbeveratoi per potersi lavare il viso. A ventisette anni, nel ’39, seguì la madre rimasta vedova fino al Regina Elena/futuro Mazzini/Corvetto. Trovò lavoro come magazziniere. La ditta rivestiva interesse bellico. Tullio evitò l’Armir e il černozëm sovietico.

   Pino è al largo di Brisbane. Io sono su Ganimede con Tina Turner, che sta per nascere. Mio padre ha sempre definito Tina “una grande figa”.

   Siamo qui da sempre. Non ce ne siamo mai andati. Adesso facciamo anche la Resistenza.

   Al numero 50 di viale Umbria c’è un’osteria. È uno ritrovo dei partigiani. Non ha nome, ancora anni dopo resterà soltanto “Il Cinquanta”. C’è una casa in piazzale Libia. I nazisti ci torturano la gente. Dopo la guerra verrà trasformata in una sede del Partito Comunista.

   Pino diventa comandante della 114ma Garibaldi. Conduce disarmi contro i nazisti e i repubblichini. Stampa foglietti di propaganda col ciclostile. Assunta li diffonde fuori dalle fabbriche.

   Il loro appartamento puzza d’inchiostro. Tutta la scala di quel civico di via Mompiani puzza d’inchiostro. Nessuno dice niente. Ci sono inquilini notoriamente ebrei. Nessuno dice niente. Siamo la classe operaia e diamo fuoco a vent’anni di vita nazionale.

   Rimarco di essere nato a cento metri da lì. Chiarisco che si tratta della mia storia.

   Siamo morti e siamo ancora qua. Il quartiere si riempie di targhe partigiane. L’alloro delle corone imbrunisce. I marocchini ci spacciano sotto. I marocchini provengono da Béni Mellal. Trattasi di un buco di culo a centoventi chilometri da Marrakech. È tutto un flusso del quale dobbiamo cogliere la direzione.

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   Cammino per Corvetto all’età di circa vent’anni. Sono già i tempi del ritorno al sottoproletariato: fabbriche e orgoglio di classe ce li abbiamo sotto i tacchi.

   Guardo, adocchio, studio, osservo, vedo, occhieggio, scruto. Sono un voyeur e amo rielaborare. Aggiungo e cucio, traggo conclusioni. Gli studi universitari mi spingono a cercare cause storiche alle condizioni delle persone che mi camminano a fianco. Io sono loro senza che loro siano me.

   Sono un voyeur. Rielaboro. Ho già scritto qualche centinaio di pagine di un romanzo che non pubblicherò mai.

   Salpo, navigo per il quartiere. Serpeggio in un arcipelago di spacciatori. Fumo sigarette Diana Blu e Fortuna Blu.

   Gli anarchici vanno in giro a gruppi di tre. Sono copie naïf della vecchia Autonomia. Sono miei coetanei di provenienza piccolo borghese, gente che si sente in colpa, gente in totale buonafede. Non hanno resistito a un giro sull’ottovolante lumpen.

   Tessono contatti con i tizi del racket degli “sfondi”. Bum, una botta, giù le lamiere, dentro nelle case. Occupiamo. Siamo fichi.

   Fumo Diana Blu. Registro tutto. Che voyeur. Che ambizione. Quante energie spese per quel baluginio di gloria.

   Gli anarchici vengono in quartiere. Vestono total black e desiderano farsi notare. Cercano l’amore di quel sottoproletariato da cui sono divisi e del quale bramano un’approvazione estetica più che politica. Swissshhhh, passano senza amalgamarsi, nafta sull’acqua, nel più totale disinteresse dell’oggetto delle loro bramosie.

   Il sottoproletariato ingrato non se li caga. Il sottoproletariato li percepisce come corpi estranei. Il sottoproletariato si fa una sega e gli sborra addosso.

   Nel 1946, nella via dove nascerò quarantun anni più tardi, viene gambizzato un ex-milite fascista, perché non siamo gente che dimentica. Nel 1947 un vecchio pazzo spara in faccia a un bambino, nell’ortaglia che gli inquilini al piano terra delle case popolari possono coltivare, ancora oggi. Nel 1948, dopo la vittoria a valanga della Democrazia Cristiana alle elezioni, Pino viene licenziato dalla Motomeccanica per rappresaglia politica. Nel 1949 viene fondata la NATO e i miei nonni si sposano. Nel 1950 comincia la guerra di Corea: da adesso le baraccopoli degli sfollati si chiameranno “coree”, comprese quelle che il ramo materno della mia famiglia osserverà dalle finestre di casa, pochi anni dopo, insediandosi a Milano da Roma, a quattrocento metri dalla casa dei nonni paterni. Nel 1951 nasce mio padre nella stessa casa in cui nascerò io e lo Stato Italiano è nato da novant’anni.

   È così. Sono gli anni Cinquanta. Un gran momento per crescere marmocchi. I bambini giocano nei cortili delle case popolari. Partite a carte, puntano fumetti al posto dei soldi. Il Tex Willer resta sotto al sedere, è il più prezioso ed è l’ultima risorsa.

   Tex Willer è la bomba atomica della situazione. I bambini sono piccoli Harry Truman dal grilletto facile.

   Tiriamo sassi ai gatti. Sciamiamo sulle scale. Questo è il miracolo economico.

   La storiografia collocò il miracolo economico fra il 1958 e il 1963. A seconda delle inclinazioni ideologiche dell’interprete si tese ad attribuire il merito di questo exploit che portò l’Italia al terzo posto delle economie mondiali, dietro solo a USA e URSS, all’imprenditoria privata, o alla committenza pubblica, o alla sinergia fra le due, o alla favorevole congiuntura economica di un mondo che doveva ricostruirsi dopo la seconda guerra mondiale. È la magia dei vuoti di mercato, abbinati a manodopera a basso costo, abbondanza di materie prime, energia a prezzi ragionevoli, diritti ancora compressi a livello Ventennio.

   I lavoratori, il miracolo, se lo intestano d’autorità.

   Ciao, stronzi. Sono gli anni Cinquanta. Il miracolo economico l’abbiamo fatto noi.

   Corvetto si riempì di ulteriori operai. Arrivavano dal sud senza parlare l’italiano. Imparavano lingua e politica in fabbrica.

   Davanti alla Motomeccanica, in via Oglio al 3, c’era la Trattoria dell’Adda. La gestivano due ex-partigiani. Gli operai avevano il loro tasìn, il tazzino personale ad aspettarli a fine turno, appeso a una griglia di ferro. Luciano Tajoli in persona frequentava il locale. Sabato e domenica cantava per i lavoratori.

   Pino Sacchi, rimasto senza lavoro, è diventato un quadro della FIOM di Milano in procinto di entrare nella Segreteria Provinciale. È un soggetto scomodo, dotato di intelligenza e capacità organizzativa. Mandiamolo in URSS, vogliono un operaio per il viaggio-studio.

   Negli stessi anni Tullio Brentari, ora padre di un bambino e una bambina, lavorava come magazziniere in una fabbrica di cartone ondulato per confezionare medicinali, situata a Pioltello. Si recava al lavoro sul “Galletto” della Moto Guzzi. Metteva i giornali sotto la canottiera per isolare il calore. Gina, sua moglie, era casalinga. Tullio arrotondava col vecchio mestiere di materassaio.

   Io scrivo da Giove al mio amico Mo Yan: lui è planato a Gaomi, in Cina, un paio d’anni fa, e mi ha lasciato qui nel gelo. Mio padre viene acconciato da mia nonna con la mitica pettinatura a “doppia banana”. Mia madre è il pensiero confuso di una coppia di neosposi del proletariato romano.

   È tutto vero e documentato, non tralascio niente. Nemmeno quando dico che Pino Sacchi divenne segretario della FIOM provinciale, e cominciò a cambiare la storia del miracolo economico e della classe operaia italiana a colpi di scioperi, col supporto di circa trecentomila persone.

   Sono gli anni Sessanta. Abbiamo promesse da mantenere. Ci sono percorsi da camminare.

   Da qualche anno quella coppia romana era arrivata in città. Romano era nato l’anno del primo plebiscito, il che deve avere inciso sul nome di battesimo. Adriana era la mia donna del popolo, il tipo di persona buona che con la gestualità del corpo e il tono di voce ti convince che l’umanità dispone di un futuro luminoso.

   Girarono alcune case, fecero tre figli, di cui una sarebbe diventata mia madre, e si stabilirono a Corvetto. Cinque minuti a piedi dalla casa di Tullio B e Gina. Due minuti a piedi dal luogo in cui il partigiano Fontana mise una bomba a mano in tasca a Pino Sacchi.

   Siamo sempre stati qui. È tutto un unico respiro.

   C’è una forza centripeta, giusto? C’è un punto di caduta della narrazione, si capisce?

   Romano e Adriana sono impiegati dell’ENPDEP, Ente Nazionale Previdenza Dipendenti Enti Diritto Pubblico, una specie di Leviatano Fantozzi, una INPS per soli impiegati dello Stato e assimilati. Entrano col minimo delle mansioni. Adriana vivacchia e fa il suo, Romano è obbligato a iscriversi alla Democrazia Cristiana per avanzare di grado. Quando ottiene una posizione stabile, molla i democristiani e fa la tessera dei comunisti.

   Romano e Adriana covano un sogno borghese, una potenzialità di classe che in fondo non trova davvero spazio nei loro petti, perché restano fiori del popolo. C’è una sorta di ibridazione, siamo fuori dall’ortodossia, ma ciò non impedisce lo sviluppo della vita.

   Pino Sacchi vince tutte le battaglie sindacali che dirige e edifica, di fatto, lo Statuto dei Lavoratori. Si fa due legislature di fila al Parlamento (1963-1972). Yuri Gagarin se ne va lassù. Nella soffusione cilestrina dello spazio ci sono io che galleggio e ci salutiamo, io e Yura, ex-operaio metalmeccanico prima di diventare ingegnere e cosmonauta, ricordiamolo. Mia madre va a scuola. Mio padre si avvia al diploma di perito termomeccanico.

   Una parte della storiografia sostiene che i diritti e gli aumenti salariali acquisiti con le lotte operaie dei primi anni Sessanta abbiano di fatto segato le gambe al miracolo economico, così che quando il centro sinistra veniva varato a Montecitorio, nel 1963, le condizioni economiche che avrebbero potuto sostenere un vero progressismo erano già venute meno. Tuttavia, sotto il profilo metodologico, occorre osservare che il movimento operaio richiese diritti superiori e paghe migliori in conseguenza del fatto che alla fine degli anni Cinquanta c’erano state modificazioni rilevanti nel sistema di produzione.

   Maggiore sfruttamento/maggiore produttività. Maggiore produttività/maggiore rilevanza economica. Maggiore rilevanza economica/maggior peso politico. Maggior peso politico/più soldi e più diritti. Più soldi agli operai/i padroni disinvestono per mantenere stabili i profitti. Meno produttività/meno lavoro. Meno lavoro/più sfruttamento. Più sfruttamento/meno rilevanza politica. Meno rilevanza politica/più rabbia.

   L’incanto sfuma in disincanto. C’è una specie di inafferrabile eco della sconfitta. Come buttare un sasso nel pozzo, tendere le orecchie, e non sentire niente.

   Bum: piazza Fontana. Bum: il golpe Borghese.

   Ciao, gente. Sono gli anni Settanta. Il sogno collettivo si accartoccia nell’insoddisfazione individuale. Ci mette dieci anni, ma la freccia arriva al cuore.

   Siamo sempre qui, non ce ne siamo mai andati.

   Dunque: mio padre entra in fabbrica alla Polenghi di Lodi. È uno spasso. Si fanno cadere le forme di grana dalle assi della stagionatura, ops. Si pasteggia a formaggio e vodka sovietica.

   Mia madre frequenta l’Istituto per il Turismo. I fascisti uccidono a pistolettate un suo compagno di scuola, Claudio Varalli. Il giorno dopo, alla manifestazione in memoria di Claudio, una camionetta delle forze dell’ordine passa sopra Giannino Zibecchi. Gli schiacciano la testa come un foruncolo. Il cervello schizza dall’altra parte della strada.

   Milano è rovente. C’è la politica, incattivita. C’è la mala locale e ci sono le mafie.

 

   Uno zio di mio padre, il comunista Guido Bort, viveva dalle parti di Lambrate. Per tirare a campare faceva pulizie notturne negli uffici. Una notte si accorse che qualcuno era entrato per rubare. Lo inseguì e lo abbrancò. Il tizio si liberò lasciandogli il cappotto in mano. Scoprì che era Renatino Vallanzasca solo quando fu chiamato a testimoniare al processo. A conferma dei sentimenti di buon cittadino, Guido Bort raccontò tutta la vita di essere quello che aveva messo la spilla da balia alla gonna di Claretta Petacci perché non le si vedessero le mutande in piazzale Lo-reto. Ma a Milano molti altri si sono intestati lo stesso merito nel corso dei decenni.
   Nei Settanta Pino Sacchi è dirigente dell’Azienda Elettrica Municipale. Insieme con altri si inventa le Conferenze di Produzione, qualcosa di molto simile ai consigli di fabbrica che governavano certi stabilimenti durante la Resistenza.

 

   Io sono sempre lassù. Arrivo a dire che piloto un aereo spia in compagnia di Tina Turner. Aggiungo che esistono istantanee a comprovarlo.
   Sono apparecchi tipo gli U2 americani. Aerei a larga apertura alare, capacità di quota superiore ai ventimila, libelluloni equipaggiati con ottiche grandangolari. Io e Tina immortaliamo montagne incendiate di petali rossi, per chilometri e chilo-metri.
   Questo è il papavero. Questo è il Triangolo d’Oro.
   Aree montuose e foreste si accalcano addosso al Mekong per assistere allo spettacolo del fiume che scorre. La provincia di Chiang Rai, Möng Kwan, Ban Houayxay. Formalmente: Thailandia, Birmania, Laos. Di fatto il Paese dell’Eroina, al di fuori dell’autorità degli Stati.
   Il papavero è schifiltoso. Ciuccia aria pura, solo fra i mille e duemila metri di altitudine. Intorno vuole una corona di montagne che lo protegga dagli spifferi. Vicino richiede foreste che umidifichino l’aria, ma senza fargli ombra, perché ama il sole.
   Cresce fino a un metro, i petali precipitano scoprendo un bulbo grande come una prugna. I contadini lo incidono con un coltello a tre lame. Il liquido biancastro cola fuori e imbrunisce reagendo all’ossigeno. È così che estraggono l’oppio.
   Nel 1949 il compagno Mao prese a calci in culo i nazionalisti. La novantatreesima divisione di Chiang Kai-shek si sbandò, infrattandosi su queste montagne. Molla-rono la controrivoluzione e sposarono l’oppio. Si amalgamarono alle comunità preesistenti. Questo popolo di contadini senza nazione, i Fratelli d’Oppio.
   I contadini si spostano su sentieri appena tracciati nella foresta. Abitano in capanne aggrappate alle pendici dei monti. Per loro l’oppio è cibo, in assenza di meglio. Si mette sulla lingua dei neonati quando piangono. Si mescola all’acqua per curare la dissenteria. Si spalma sulle ferite per farle rimarginare. Te lo fumi se vuoi crepare in serenità, senza dolori.
   Poi, sì, lo vendono ai signori della droga. I signori della droga lo vendono alla mafia. La mafia lo spaccia anche nelle vie di Corvetto.
   Corvetto divenne il feudo della famiglia Fidanzati. Lo sapevamo tutti. Stavano fra via Romilli e via Bessarione. Se nel 1970 Tanino Fidanzati, Gaetano Badalamenti, Salvatore Greco, Giuseppe Calderone, Tommaso Buscetta e Gerlando Alberti vennero fermati per un controllo qui, a circa novanta metri da casa mia, era per l’eroina.


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   Nell’estate del 1980 i poliziotti smantellano due raffinerie di ero a Trabia e Villagrazia di Carini. Le conduce Gerlando Alberti, che finisce dentro. Il Nottingham Forest vince la Coppa dei Campioni. Mia madre ha vent’anni e arrotonda alla macchina del caffè di un bar all’Idroscalo. I suoi colleghi fanno turni da quindici ore, si sfondano le narici di cocaina. Mio padre seguita a fare il manutentore di impianti idraulici alla Polenghi Lombarda di Lodi. Lui e mia madre non si sono mai incontrati.

   Anni Ottanta, siamo sempre qui e siamo cambiati.

   Le fabbriche stanno chiudendo. Si sfaldano i corpi intermedi – grandi partiti, grandi sindacati – e, come sempre quando questo accade, entrano altri soggetti. La mafia è capitalismo e individualismo. Le famiglie scivolano nel quartiere. I ragazzi si bucano per strada, fra le macchine. Portando a spasso il cane lo guarderò pisciare su uno di loro, anni più tardi, incapace di oppormi.

   La verità è che ci viene come un reflusso di egoismo, che ci brucia in gola e lo sputiamo fuori. Può essere che ce l’avevamo dentro da prima.

   L’eroina è il simbolo di tutto ciò. La droga che ti chiude in te stesso, che ti fai in solitudine.

   C’è una costruzione culturale mafiosa che incomincia a dominare le case popolari. Ce la becchiamo in pieno e la introiettiamo. L’insulto peggiore diventa “infame”. Nel mondo ci sono gli sbirri, e poi tutti gli altri. I confini del quartiere sono cancelli elettrificati: vietato oltrepassarli.

   Sono logiche da Sicilia, e invece è Milano, la città che era degli operai.

   La frattura si compie, proletariato/sottoproletariato. Poi si ricompone, e la calcificazione dell’osso lascia una sola cresta visibile, quella del sottoproletariato. L’eroina certifica il momento. Assolve il compito dell’acquasanta nelle funzioni liturgiche.

   La classe operaia dice: Chi lavora mangia, chi non lavora non mangia.

   Gli anarchici, i turisti del quartiere, interpretano adeguatamente gli umori del sottoproletariato e scrivono sui muri (davvero): Occupa ruba diserta il lavoro.

   Siamo in un equivoco politico. Siamo su strade che mi sa che non si incontreranno mai.

   Mia madre pulisce il sangue rovesciato dagli infermieri in una corsia di gastroenterologia dell’ospedale San Paolo. Mio padre regola equilibri pressori nei tubi dei macchinari. Non si sono ancora conosciuti. Io saltello fra le stelle, mi apposto e attendo. Faccio picchiate in Cirenaica e intavolo discussioni con marabutti negri.

   Siamo qui e non siamo più gli stessi. Abbiamo perso la solidarietà di un tempo. Domina quella cattiveria meschina dei poveri.

   Ci sono drammi familiari in giardino. Confessioni condivise. L’esposizione comunitaria di rapporti sessuali sbilenchi e prematuri: «Mammà, mi sono scopata a Diego». Vengono scambiate opinioni da un palazzo all’altro. Esplodiamo sentenze finestra-finestra e finestra-cortile. Forse non era il caso di scoparsi Diego all’età di dodici anni.

   Le figlie del lumpen ascoltano neomelodico napoletano. C’era quel pezzo di Nancy, Ragazza madre. Le adolescenti incinte lo cantavano con una certa esibizione. Le ho sempre guardate con il timore di chi è un po’ inadatto alla vita, di chi pensa che è difficile «rivolgersi a un altro uomo senza tremare».

   Perché c’è questo terrore, questa disabitudine.

   Appartenere senza ombra di dubbio a qualcosa che non ti assomiglia per niente.

   Eravamo il sottoproletariato dei Ruggenti Venti. Siamo diventati proletariato e siamo tornati sottoproletariato. Eravamo qui da sempre. Era il secolo della nostra ascesa. Ci siamo ritirati nell’ombra. Il nostro risveglio è stato contraddittorio. Ci lecchiamo le ferite e, perlomeno, la sconfitta ci appartiene.

   La mentalità mafiosa finì per soccombere alle sfide del globalismo. I boss italiani finirono dentro. Li sostituì una rete un po’ cialtrona di nordafricani, in gergo: i maranza.

   I marocchini spacciano, vistosi. Jeans e infradito a novembre. Distribuiscono sorrisi bruniti. Esibiscono dentature disastrate.

   Vago per la città, oggi, lontano da Corvetto. Dove c’erano le fabbriche ci sono il lounge jazz e le aree di coworking per creativi.

   Galleggio. Non partecipo. Il mio è uno strusciare neghittoso, collerico, sciatto.

   Dove c’erano gli operai oggi c’è l’artigianato sostenibile a prezzi proibitivi per il lavoratore medio.

   Struscio. Mi infiltro. È una finzione. È tutto un sabotaggio. Potrei rubare quella borsa di canapa, prodotta senza l’utilizzo di coloranti artificiali. Potrei cagarci dentro per dare sostanza all’importanza capitale del riuso nella società dei consumi.

   C’è questo perenne senso di estraneità. Abbiamo alienato una patria ideale e fisica, che era la Milano operaia. Organizziamo una resistenza muta che ci sfibra e non interessa a nessuno.

   Milano postula l’esistenza di un’ultraborghesia diffusa, più culturale che economica.

   Sento a volte la paura folle di esserne risucchiato.

   Chiesi a Pino dove fosse, il 25 aprile 1945. Mi aspettavo che rispondesse di essere andato a sfilare per le strade.

   No, doveva uccidere un uomo.

   Aveva avuto una soffiata ed era partito con due dei suoi. L’assassino di suo fratello, uno degli assassini, uno di quelli che quattordici anni prima aveva bastonato, pugnalato, ucciso Luigi Sacchi, e poi ne aveva seppellito il cadavere, e poi lo aveva disseppellito per farlo ritrovare in stato di decomposizione nel luogo in cui era stato aggredito, uno di quei fascisti si trovava in un ospedale da campo.

   Erano montati sulle biciclette. Si erano presentati all’attendamento. C’erano mutilati e gente bendata ovunque.

   La suora aveva sbarrato loro la strada. La suora aveva protetto il tizio. Aveva intuito che quei tre partigiani erano lì per fare qualcosa prima che si rientrasse nella legalità.

   Non gliel’ho mai detto, ma per me il tentativo di uccidere quell’uomo definiva l’umanità di Pino. Forse mi sarei comportato alla stessa maniera. Forse sto confessando un omicidio che nessuno ha mai commesso, ma che avrei potuto commettere io alla luce di determinate circostanze personali e storiche.

   Quando cammino per le strade del mio quartiere non le vedo mai solo nel presente. Le vedo proiettate sul telone del tempo, quando transitavo di qui per tornare a casa da scuola, e assorbo le storie dalle suole. C’è la Motomeccanica, c’è tram per Rogoredo, ci sono le tute blu, c’è il ciclostile.

   Pino è nato settant’anni esatti prima di me. Deve, in queste stesse strade, aver incrociato il passo con la mia famiglia ben prima che ci conoscessimo.

   Io e lui, qui, allora e ora. Siamo sempre stati qui. Ci siamo sempre. Sono i nostri chilometri quadri. Un’ascendenza comune e un appuntamento.

   Non abbiamo mai stabilito questa verità. È stato un riconoscimento progressivo e muto che ha imposto le sue conseguenze. Nessi di causalità, sangue e geografia.

   Siamo qua, non ce ne siamo mai andati.

   Ma questo è successo dopo, dopo, dopo, dopo.

   Prima ci sono un uomo e una donna, visti dall’alto, che compiono una serie di passi distratti e inconsapevoli che li porteranno uno di fronte all’altra.

[Nelle foto: Pino Sacchi e alcuni operai; Case popolari, via Pomposa angolo via Ravenna; Tullio; Gina in bicicletta; Pino in un comizio durante l'occupazione della Pracchi; Tullio con compagni e compagne di lavoro; Tullio sul "Galletto"; Adriana, Tirrenia 1982; Romano a una Festa dell'Unità; Yuri Gagarin, comparso anche in una pièce teatrale che scrissi nel 2017; Pino Sacchi in visita a una fabbrica insieme alla cosmonauta sovietica Valentina Tereškova; Guido Bort su un triciclo per bambini; Adriana sulla seggiovia; Adriana fra due macchine; Pino all'epoca della Marina.]

Commenti (5)

Ospite
18 dic 2022

Sei sempre un grande dono! Bravo Ivan

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Ospite
17 dic 2022

Bravo

Ho letto tutto di un fiato,senza respiro come se fosse un thriller invece che vita vera,reale, vissuta e sofferta.

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Ospite
17 dic 2022
Risposta a

Grazie a te.

Ivan Brentari

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Ospite
14 dic 2022

Sezione del partito Comunista in piazzale Libia? Dove precisamente?

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Ospite
15 dic 2022
Risposta a

Era nel compound di villette all'angolo fra piazzale Libia e via Cadore. Oggi sono abitazioni private.

Ivan Brentari

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