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18/1/2019

ALCUNE QUESTIONI FRA MANUEL VÁZQUEZ MONTALBÁN E ME (PARTE TERZA, con percorso video finale)

Segue dalla SECONDA PARTE

Ya nadie me llevará al Sur. “Più nessuno mi porterà nel Sud”.

   È la citazione in esergo a I mari del Sud, la quarta indagine di Pepe Carvalho, uscita nel 1979. Prima erano venuti Ho ammazzato J. F. Kennedy (1972) un romanzo onirico e totalmente diverso dal resto della serie, Tatuaggio (1977) e La solitudine del manager (1977). Dopo, molti altri ne verranno, distaccandosi progressivamente dal canone noir per approdare alla satira e al fantastico picaresco.

   La citazione è tratta dal Lamento per il Sud di Salvatore Quasimodo. Montalbán si diverte a mettere questo stesso verso in un biglietto che viene ritrovato addosso al cadavere del romanzo. Il cadavere è Carlos Stuart Pedrell, affarista e palazzinaro, rinvenuto accoltellato in un cantiere di Barcellona, quando tutti pensavano che, preda di una folgorazione e pieno di disgusto per la propria posizione sociale, fosse partito da un anno per la Polinesia. Mima, la moglie, vuole sapere cos’abbia combinato nei mesi in cui è scomparso; se abbia fatto operazioni strane coi soldi, soprattutto.

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   Carvalho comincia a indagare, striscia per Barcellona, incontra parenti, soci e amici di Stuart Pedrell. Incontra il pittore Artimbau, alter ego dell’amico pittore di Montalbán, Francesc Artigau. Le ricerche lo porteranno nel quartiere di San Magin, un mucchio di case fatiscenti per operai che lo stesso Stuart Pedrell ha fatto costruire: una speculazione edilizia pronta a marcire.

   I mari del Sud va ben al di là del romanzo d’intrattenimento. È la descrizione di un paese che esce dalla dittatura ed è alla vigilia delle elezioni. Nessuno parla volentieri di Franco. Nessuno lo rimpiange, nemmeno quelli che sotto di lui hanno fatto affari d’oro. Perché chi ha il potere sa che nulla cambia per chi sa cambiare faccia. Montalbán disegna personaggi memorabili, ognuno dei quali rappresenta uno spicchio di società spagnola. È sociologia fatta a romanzo, è politica.

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   Il marchese di Munt è l’aristocrazia: socio svogliato di Stuart Pedrell, piantato dov’è da secoli, attraversa la realtà indifferente a tutto; potrebbe essere nato nel 1658, e farebbe lo stesso. Planas: imprenditore e socio operoso di Stuart Pedrell, in corsa per la poltrona di leader degli industriali, è ansioso di scoprire le opportunità che la democrazia potrà dischiudere agli uomini-squalo come lui. Ana Briongos: è l’anima operaia della città (del Paese?), ma per questioni anagrafiche non ha preso parte alla guerra civile, come i compagni con cui è in contrasto. Jésica: figlia di Stuart Pedrell, cocainomane; è la generazione dell’opulenza che dell’opulenza non sa che cazzo farsene e così perde la bussola.

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  In un piccolo carruggio a fianco della Boqueria c’è un negozio di libri usati. È difficile rendersene conto, se non fosse per i bancali sulla strada che espongono alcuni volumi. Un giorno ci trovai una copia de Los pajaros de Bangkok. La proprietaria del negozio, una signora trasferita a Barcellona da un paese del nord Europa che non ricordo, mi disse: «È un peccato che un grande autore come Montalbán sia ricordato solo per i gialli e non per le sue poesie». In effetti è vero che nella sterminata produzione di Manuel Vázquez Montalbán, Carvalho è solo la punta di un iceberg fatto di articoli di giornale, poesie, saggi, testi teatrali e radiofonici, e ovviamente romanzi: una vera e propria cronaca letteraria in presa diretta di quello che la Spagna e il mondo stavano diventando nella seconda metà del Novecento. Però nel tono della donna ritrovavo una nota acida che incontro spesso quando parlo di gialli, noir e affini con i puristi letterari. Il giudizio duro a morire che il giallo sia un genere minore. Scrivendone anche io, non posso che contestare questa versione. Come dichiarò lo stesso Montalbán, il giallo dopo la Seconda Guerra Mondiale giocò a rompere i propri confini e andare oltre sé stesso. Pepe Carvalho in fondo è l’occhio che Manolo usa per raccontare la disillusione di un secolo. Il crollo di un sogno: gli anni Sessanta avevano promesso benessere; alla fine del secolo, quando Montalbán scriveva i suoi ultimi romanzi (morì nel 2003), restavano solo neoliberismo e schiavitù. Non esattamente temi da letteratura minore.

   Riavvolgiamo il nastro fino al 1979, Francisco Franco è morto da quattro anni. Ancora dentro I mari del Sud.

   San Magin era un eremita morto nel 306 d.c. E così il quartiere di San Magin, nel quale sbarca l’annusapatte Pepe Carvalho, ospita una classe eremita, la classe operaia, che nella nuova Spagna sembra dover rimanere subalterna; come se le migliaia di detenuti politici – fra cui lo stesso Vázquez Montalbán – non fossero servite a nulla. Gli scrittorucci borghesi e progressisti moderati cercano di solito di sgravare la classe operaia dalla colpa di esistere e sé stessi dalla colpa di non farne parte. Così danno degli strati sociali più bassi un’immagine caricaturale, buonista, e funzionale in parte a sé stessi, in parte al potere. Quando Manolo visita San Magin, attraverso i piedi di Carvalho, racconta tutte le sfaccettature del quartiere e di chi lo abita, tutto il bene e tutto il male, senza intenti agiografici e senza imbrogliare. Qui sta la «lealtà verso sé stesso e verso la sua famiglia» di cui parlava Ramoneda Molins.

 

   I mari del Sud è un romanzo vitale e amaro che mescola la tragedia individuale con la tragedia collettiva, come nel teatro classico. E che affoga nella poesia. La poesia di un protagonista cinico che sa piangere. La poesia di una miriade di personaggi che cerca i propri mari del Sud, che quindi non sono un luogo geografico ma uno stato mentale. In fin dei conti, la Liberazione. Ma i mari del Sud sono anche il metro per misurare la propria identità, il polo negativo con cui mettersi a confronto per capire chi si è davvero.

   Stuart Pedrell si vergogna di ciò che è diventato, prova a cambiare e finisce ucciso. Sua figlia Jésica, che lo adora, vuole scappare con Carvalho per un viaggio senza fine in cui trovare sé stessa. Ognuno ha i suoi mari del Sud, la sua ragione di vita, o la sta cercando. È una ricerca della felicità che promette di tradire tutti: Carvalho, Barcellona, la Spagna, Montalbán stesso, l’umanità.

   Difficilmente rileggo i libri, ma rileggo I mari del Sud almeno una volta all’anno. In anni bui, anche due. Come terapia. Mentre scorro le pagine e subito dopo averle finite, mi sento bene.

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   Nelle peregrinazioni sconclusionate di quell’autunno 2013 pensavo spesso a questo romanzo. Frugavo le facce della folla e scritturavo le più interessanti per il mio film de Los mares del Sur.

   Ma l’abulia mi pesava. La benzina montalbaniana aveva raggiunto la tacca della riserva, i cattivi consigli di Manolo battevano a vuoto. E poi stavo finendo i soldi.

   Capii tutto in una clinica oftalmica, la Clinica Barraquer.

   È un edificio dall’architettura particolare, pieno di simboli esoterici, non lontano da Gracia. Mi mescolai a vecchi con la cataratta e bambini con le bende sugli occhi. Cominciai a fare foto e nessuno mi disse nulla. Salii l’ampia scala a spirale bianca e nera e mi sporsi. Un ricciolo nero, il corrimano, si avviluppava all’ingiù, ipnotico. Intuii che era in qualche modo la metafora di quelle settimane: chiaroscurali, autodistruttive e dirette in basso. Era ora di darci un taglio.

   Qualche giorno dopo ero a Milano.

   Mi resi conto che quel girare per settimane senza meta era stato un punto di svolta. Avevo imparato che solo a costi elevatissimi – psicologici e fisici – sarei riuscito a fare un lavoro che dipendeva dagli ordini di altre persone. Che l’unico antidoto era la scrittura. Che dovevo essere più serio e puntuale in quello che scrivevo e nella maniera in cui cercavo di farmi pubblicare.

   Chiarito quello, con la benedizione di Manolo, mi sembrò tutto più facile.

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***

 

Per chi volesse conoscere meglio la figura di Montalbán, su internet è presente un po’ di tutto. Ci sono però dei filmati che mi sembrano particolarmente belli.

Il primo è un vero e proprio documentario, in cui amici, colleghi e cari di Montalbán provano a tracciarne un profilo, istigati da un finto Salvo Montalbano, arrivato a Barcellona apposta da Vigata per investigare sull’uomo a cui deve il nome. È in spagnolo, ma si capisce abbastanza facilmente perché il narratore – Montalbano appunto – ha un forte accento italiano. Occhio a Carmen Balcells, agente di MVM e protagonista leggendaria della letteratura del XX secolo.

Il secondo è un’intervista a Manolo, una sorta di testamento spirituale. Parla di letteratura, politica, carcere, amore, morte. Seguirlo è più difficile se non si hanno basi piuttosto solide di lingua spagnola, ma tentar non nuoce.

Numero tre: un’intervista in italiano risalente al 1997. Qui Vázquez Montalbán anticipa molti dei temi che poi sarebbero diventati e sono tuttora al centro del dibattito; dal proliferare dei servizi di intelligence, alla questione dell’immigrazione. È una dimostrazione di quanto uno scrittore e un intellettuale come lui manchi, ancora oggi, alla scena europea. Venti minuti ben spesi.

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